L’ABBAZIA   DI   SANTO    STEFANO    A    GENOVA

L’ABBAZIA   DI   SANTO    STEFANO    A    GENOVA

Una   storia   travagliata

 

Fatima POSCIA

 

Chi si trovasse a percorrere via alla Porta degli Archi verso via XX Settembre, alzando lo sguardo rimarrebbe profondamente colpito dalla bellezza della chiesa romanica che sorge alta di fronte a sé. Nessuno potrebbe immaginare attraverso quante e quali traversie tanta bellezza sia giunta fino a noi.

L’abbazia di Santo Stefano, che è uno dei più begli esempi di architettura romanica a Genova, venne costruita sul colle di Carignano, a monte della strada che collegava la città alla Val Bisagno ed al levante ligure, sui resti di una piccola chiesa di probabile origine longobarda dedicata a san Michele Arcangelo Non è noto l’anno di fondazione, ma certamente gli unici elementi superstiti della chiesetta longobarda si trovano nella cripta e cioè la parte più arretrata della stessa rialzata di un gradino e il suo arco absidale, a cui è stata attribuita una datazione fra il VII e il IX secolo. L’area su cui sorge era stata occupata da una grande necropoli preromana, i cui ritrovamenti hanno fornito preziose informazione sui primi secoli di vita della città.

Nel 931 Genova era stata vittima di un primo tentativo d’assalto da parte di una flotta di pirati saraceni, trenta navi e cento scelandie ossia galee, al comando dell’ammiraglio Safian Ben- Kasim. I Genovesi, però, reagirono e respinsero i Musulmani. Per nulla intimorito il califfo ad Obeid dedicò i successivi due anni alla preparazione di una flotta ancora più forte. Fu così che il 19 maggio 934 sbarcarono a Genova, provenienti da Tunisi, i Saraceni che inflissero alla città ed ai suoi abitanti un orrendo saccheggio, con novemila cittadini condotti in schiavitù e la profanazione e distruzione di molte delle sue chiese. Prima che i Genovesi potessero riorganizzarsi e reagire, grazie all’afflusso di forze nuove da tutta la Liguria,

l’ammiraglio diede ordine di salpare le ancore e nella notte del 12 ottobre partì con tutti i prigionieri ed un ricco bottino.

La ricostruzione incominciò subito, sotto la spinta del vescovo Teodolfo II, così preoccupato per il morale delle sue pecorelle, che chiamò a Genova i monaci benedettini perché dessero impulso alla vita religiosa. Nel 972 i detti monaci cominciarono i lavori per la ricostruzione della chiesa di santo Stefano e dell’annesso monastero che avevano subito gravissimi danni. Una chiesa nuova e più grande, che potesse includere nella cripta i resti di quella precedente. A fianco della chiesa fu costruito un piccolo Battistero che oggi è incorporato nella cappella laterale dedicata alla Madonna della Guardia. Le poche monache ancora in vita, che fino a quel momento avevano abitato il monastero, furono allontanate. Il complesso fu affidato ai monaci di San Colombano di Bobbio (che intorno al 643 si erano fusi con i Benedettini, la cui regola, non così rigorosa, ammorbidì quella di San Colombano) che  vi rimasero fino al 1431. Il territorio   intorno, corrispondente più o meno all’attuale Portoria, fu loro donato e fra il 982 e il 998 acquisirono anche la proprietà di San Pietro della Porta, oggi conosciuta come San Pietro in Banchi. I monaci conquistarono la fiducia della popolazione al punto che attorno alla chiesa si formò un agglomerato sempre più grande, che era un borgo povero, ai margini della città e molto affollato, abitato per lo più da una popolazione modesta che viveva in precarie condizioni igieniche e che sarà falciata dalla peste nel 1349.

La chiesa fu innalzata a parrocchia dopo il 1054 e come tale la si trova menzionata in una bolla papale di Innocenzo II del 1134. Nel 1217 (alcuni dicono nel 1157) venne nuovamente rimaneggiata, su modello di quella di Bobbio, e il 31 maggio fu riconsacrata dai cardinali Ugolino dei Conti di Segni e Sinibaldo Fieschi, che diventeranno entrambi Papi, con il nome di Gregorio IX e di Innocenzo      IV. Nell’occasione la chiesa ricevette in dono dall’abate di Bobbio, san Bertulfo, la reliquia di santo Stefano, consistente in  un braccio del santo racchiuso in un cofanetto d’argento dorato e sbalzato, di squisita fattura, forse bizantina, di proprietà dell’abbazia di Bobbio dal 628. Tale reliquiario è contenuto in un cofanetto di legno dipinto, completamente ornato da episodi della vita del santo, recante al suo interno l’iscrizione:   “Servo  manu/Stephani/Ptho martiris/irradiante miris magnificis/ac multis/auxiliantem” (Custodisco la mano del protomartire Stefano che splende di miracoli magnifici e dà aiuto a molti). Oggi si trova depositato presso il Museo Diocesano, pur restando di proprietà dell’Abbazia.

Il 14 maggio 1258 furono traslate a Genova da Bordighera le reliquie del Santo Eremita Ampelio, molto venerato in tutta la regione, il che fece accorrere grandi folle nell’Abbazia. Con il passare degli anni, però, le reliquie giacquero dimenticate, fino all’arrivo dei Monaci Olivetani.

La struttura originaria dell’edificio sacro era a navata unica, con una facciata a capanna a fasce bianche e grigie, tipiche del romanico ligure. Una cupola ottagonale in laterizio, del 1306, copriva il presbiterio e dello stesso periodo è la cella campanaria, sempre in laterizio, che fu costruita sopra i resti di una torre in pietra preesistente alla chiesa, di cui è incerta l’origine, anche se le forme massicce fanno pensare ad una torre di guardia, bizantina o altomedievale. E’ comunque laborioso immaginare la chiesa nelle sue forme originali, considerando quanto è stato aggiunto, ed anche tolto, nel corso dei secoli e delle numerose ricostruzioni.

Poiché i monaci godevano di grande stima e considerazione, il monastero divenne in breve ricchissimo grazie alle donazioni in denaro, piuttosto cospicue da parte dei ricchi, ma anche modeste offerte da parte dei ceti più poveri, oltre a donazioni di terreni, case ed altri beni.

Verso il 1320 Il Senato della Repubblica stabilì di dotare la città di una nuova cerchia di mura. Purtroppo il Monastero di Santo Stefano venne a trovarsi proprio sul nuovo tracciato e fu destinato alla quasi totale demolizione, come puntualmente avvenne nel 1327, dovendo fare posto anche alla nuova porta, che sarà denominata degli Archi o di Santo Stefano.

Il 13 luglio 1398 un decreto solenne del Senato della Repubblica nominò i Custodi per le torri e i campanili della città e per Santo Stefano venne nominato tale Giovanni Parnigione. Questa necessità di un custode può parere strana, ma spesso torri e campanili diventavano rifugio di gente faziosa e poco raccomandabile, difficile da stanare in caso di necessità. Per di più è bene ricordare che il suono delle campane non aveva uno scopo solo religioso, ma scandiva la vita della città.

Come già accennato, nel 1349 un’epidemia di peste sconvolse la città, un flagello purtroppo ricorrente nel tempo passato, che mieteva ogni volta innumerevoli vittime. Fra queste furono tanti i monaci di Santo Stefano che, prodigandosi nella cura degli appestati, avevano contratto loro stessi il morbo.

L’Abate di allora don Giovanni d’Orio (i parroci dell’Abbazia portavano, e portano ancora ai giorni nostri, il titolo di abate) avrebbe voluto ricostruire e ripopolare il monastero, ma riuscì solo ad edificare alcuni ambienti addossati al campanile. Morì il 22 agosto 1401 e fu l’ultimo degli abati benedettini dopo più di quattro secoli. Con la sede rimasta vacante si aprì una parentesi gravida d’incognite. Il papa Bonifacio IX allora trasformò l’Abbazia in Commenda, affidandola al cardinale Lorenzo Fieschi con la bolla del 21 settembre 1401. Fu in questo periodo che la Confraternita dei Lanaioli chiese ed ottenne di ampliare a proprie spese il Battistero e di abbellirlo con un altare dedicato a San Michele Arcangelo. Proprio lì, nel 1451, fu battezzato Cristoforo Colombo, figlio di

Domenico, poiché la sua famiglia viveva nel vicino Borgo dei Lanaioli, che era sotto la giurisdizione della Parrocchia di Santo Stefano.

Resasi insufficiente la Chiesa con l’aumentato numero degli abitanti del borgo, nel 1497 l’Abate Commendatario fece incorporare il vicino battistero, allungandolo fino al campanile ed alzandone la volta. Furono anche aperti tre archi di comunicazione nella parete della chiesa stessa. La bella linea architettonica della facciata, divenuta asimmetrica, fu così irrimediabilmente sciupata.

All’interno fu aggiunta nel 1499 la bellissima cantoria in marmo, nella tribuna dove fu posto anche un nuovo organo.

L’ultimo Abate Commendatario fu Giovanni Matteo Giberti che resse l’abbazia per dieci anni. Rinunciò al titolo nel 1530 e fece dono della chiesa ed annesso convento ai monaci di Monte Oliveto Maggiore, nella speranza che il complesso monastico potesse tornare al suo antico splendore. Lasciò comunque di sé un così buon ricordo che alla sua morte, avvenuta nel 1543, un imponente corteo di cittadini d’ogni ceto accompagnò il suo feretro fino in Cattedrale, dove fu tumulato dopo la celebrazione del servizio funebre.

Fu lui a donare alla Chiesa di Santo Stefano quel gioiello dell’arte, tutt’ora presente, che è la tavola rappresentante la “Lapidazione di Santo Stefano” di Giulio Romano. Il Vasari scrisse nel 1568: “Non fece mai Giulio più bella opera di questa!”.

Giulio Pippi, meglio conosciuto come Giulio Romano, fu il migliore allievo di Raffaello Sanzio e sono stati in molti a ritenere che in quel quadro ci fosse la mano di entrambi, il che non è del tutto falso. Infatti il quadro era stato commissionato nel 1519 dall’abate Giberti proprio a Raffaello, che aveva eseguito il disegno preparatorio, ma che non potè portare a compimento l’opera perchè, come è noto, il celebre pittore urbinate morì il 6 aprile 1520, alla giovane età di 37 anni. Allora l’incarico passò a Giulio che, pur seguendo le linee del Maestro, caratterizzò la tavola secondo la propria tempra drammatica.

Nei secoli l’opera subì diverse traversie. Verso la fine del ‘500, durante una sommossa, la pallottola di un archibugio scalfì la bocca del Santo ed ebbe quindi bisogno di un restauro, ad opera del pittore Francesco Spezzino. Nel 1812 non sfuggì all’avidità di Napoleone che la fece trasportare a Parigi e la collocò al Louvre, accanto alla “Trasfigurazione” di Raffaello. Solo nel 1816 poté fare ritorno a Genova fra le acclamazioni del popolo e riprese il suo posto a Santo Stefano con una commovente cerimonia e grandissima partecipazione di tutti i parrocchiani. Bisogna dire che ebbe maggior fortuna di tante altre opere d’arte trafugate e mai ritornate in patria. Durante l’ultima guerra fu nascosto al sicuro da requisizioni e bombardamenti fino a che, dopo un lungo periodo di permanenza nella chiesa di Santa Marta, potè tornare al suo posto.

Quel poco che era rimasto dell’antico monastero

versava in pessime condizioni, così nel 1538 anche quella parte fu definitivamente demolita per dare una migliore forma estetica alla nuova Porta degli Archi. Di esso restarono quindi solo le poche stanze addossate al campanile, fatte costruire a suo tempo dall’abate D’Orio.

I primi dodici monaci di Monte Oliveto Maggiore entrarono nell’abbazia a loro donata dall’ultimo degli Abati Commendatari il 25 dicembre 1529, ma la proprietà formale gli fu conferita la prima domenica di quaresima dell’anno successivo, con una cerimonia imponente. Alla Santa Messa solenne fece seguito la Processione con la reliquia del Protomartire, dopo di che gli Olivetani presero possesso dell’Abbazia.    Si    procedette

all’inventario dei beni mobili ed immobili alla presenza del notaio Nicola Pallavicini da Coronata e poco dopo il genovese Padre Arcangelo Fieschi fu nominato priore. Sorsero lamentele da parte dei monaci a causa dello scomodo alloggio loro destinato, ciononostante essi si dedicarono prima di tutto alla ristrutturazione della chiesa per la quale non badarono a spese. Abbassarono il presbiterio e l’altare (che era alto com’è ora, ma vi si accedeva per due scale laterali, non da un’unica centrale come adesso), eliminarono le scale e la cripta, gli stalli dei monaci vennero collocati nel coro e un bellissimo altare di marmo policromo in stile barocco fu posto nel presbiterio. Nel 1610 concessero al marchese Antonio da Passano il giuspatronato onorifico della chiesa, avendo il marchese elargito una cospicua somma per i lavori di trasformazione e per il rifacimento del tetto. Inoltre nel 1612 i monaci cedettero in proprietà alla locale colonia di mercanti tedeschi la cappella di santa Francesca Romana, che si trovava nella parte destra della chiesa dopo il pulpito, impegnandosi a celebrare la ricorrenza della santa con grande solennità.

Durante i lavori all’interno della chiesa, nel 1637 furono ritrovate, in una cassetta di marmo, murata sotto un’altare dedicato a Santa Caterina, le reliquie “smarrite” del Santo Eremita Ampelio.

Due anni dopo le formelle della cantoria poste ai fianchi dell’altare maggiore furono spostate sopra il portale principale della chiesa. Certi di aver assicurato all’edificio sacro stabilità, sicurezza e bellezza, i monaci si dedicarono alla costruzione del nuovo monastero, disegnato da Pier Antonio Corradi, per il quale il marchese Rev. Giovanni Domenico Spinola, duca di San Pietro aveva donato 1000 scudi d’argento, a cui in seguito aggiunse ancora 50.000 lire. Così il 4 ottobre 1652 il Cardinale ed Arcivescovo di Genova Stefano Durazzo poté benedire la posa della prima pietra.

Nel 1657 il flagello della peste colpì di nuovo e più duramente la città di Genova, provocando oltre 92.000 vittime, più della metà della popolazione. E ancora una volta i monaci si dedicarono con abnegazione alla cura degli appestati, senza temere nè il contagio, né la morte.

Gli Olivetani rimasero a Santo Stefano per due secoli e mezzo. Non si sa bene quando e perché il loro zelo venne meno e nacque sempre più forte il malcontento e la rabbia dei parrocchiani, i quali nel 1775 li cacciarono violentemente.

Allora i monaci fecero solenne rinuncia alla gestione parrocchiale, ma volendo trattenere per sé tutti i beni immobili, gli arredi e la chiesa stessa cercarono di dimostrare ingannevolmente come tutto fosse di loro proprietà. In tutto questo trambusto l’Arcivescovo di Genova, monsignor Giovanni Lercari, decise di affidare la parrocchia al clero secolare, nella persona del Prevosto don Genesio Rovere. Intanto la lite continuava ed i monaci rivolsero istanza al Senato che dopo averla esaminata alla fine la respinse. Lasciarono definitivamente il monastero solo nel 1797, solo perché obbligati da una sentenza che continuarono a ritenere ingiusta.

Il nuovo Parroco prese possesso della chiesa nel 1781 ed ebbe, coadiuvato dai suoi collaboratori, molto da fare per ripristinarne il decoro e la funzionalità, anche perché gli Olivetani avevano portato via con sé l’archivio parrocchiale che fu restituito solamente dopo vent’anni.

Si deve a don Rovere, alla sua particolare devozione per la Madonna e alla sua perseveranza, se l’Abbazia si è meritata l’appellativo di Santuario Cittadino di Nostra Signora della Guardia, perché fu la prima chiesa a Genova a promuoverne il culto nel 1784, erigendo un altare dedicato. Questi i fatti: nel 1760 la signora Maria Teresa Pizzorno ved. Scionico aveva dato incarico all’amica pittrice Maria De Simoni (nipote di Gregorio De Ferrari e vedova del nipote di Domenico Piola) di dipingere un quadro rappresentante la Madonna della Guardia nell’atto di apparire al Beato Pareto, da tenere nell’oratorio personale della sua casa di salita San Leonardo. Quando don Rovere venne a sapere dell’esistenza di questo quadro, cerco di convincere la signora Scionico a donarlo alla parrocchia, ma ricevette un netto rifiuto. Il buon Prevosto non si perse d’animo, lasciò passare un bel po’ di tempo e ritornò alla carica, chiedendo però stavolta di poterlo esporre per il triduo della Madonna, restituendolo dopo il 29 agosto.

La signora accondiscese volentieri. Il successo popolare fu enorme ed enorme fu anche la pressione perché il quadro            ogivale restasse definitivamente sull’altare           della Madonna  della Guardia. Constatata la crescente devozione dei fedeli, nel 1784 la signora Scionico si decise a donare il dipinto alla parrocchia. Purtroppo il quadro è andato disperso ed è stato sostituito da quella statua che si trova ora sull’altare della Cappella della Madonna della Guardia.

Un autore anonimo descrive così l’interno della chiesa nel 1818: sul lato destro ci sono quattro cappelle sfondate dedicate a Sant’Ampelio la prima, poi a San Benedetto, la terza a Santa Francesca Romana e l’ultima vicino all’altare maggiore a San Pietro in Vincoli. Sul lato sinistro invece c’è una cappella più grande dedicata alla Santissima Addolorata e seguono nell’ordine San Michele, Nostra Signora della Guardia, Santissimo Crocifisso e Santa Scolastica.

A fine ottocento, constatata l’ insufficienza delle antiche via Giulia e via della Consolazione, strette e tortuose, si avviarono i lavori per la costruzione della più moderna e lineare via XX Settembre.A questo scopo fu eliminata la Porta degli Archi (ricostruita dove si trova tutt’ora, in via Banderali alle spalle del Liceo D’Oria)e modificate le mura cittadine, in quanto fu necessario costruire un ponte di collegamento viario tra corso Podestà e la zona dell’Acquasola. Il nostro Ponte Monumentale!

Tutto    ciò    coinvolse    anche    l’Abbazia    con l’abbattimento  delle cappelle     della     parete destra, che erano state aggiunte dai  Monaci Olivetani nel ‘500, e l’eliminazione della bella discesa che portava in via Giulia. Questi           lavori compromisero pesantemente le fondamenta e fu necessario intervenire su di esse per evitare il crollo dell’edificio  sacro.

Come sostegno furono costruiti i sottostanti portici in stile gotico (ma l’abbazia è romanica!).

La popolazione del sestiere di Portoria a metà dell’800 aveva ormai raggiunto i 20.000 abitanti, così che anche l’antica chiesa era diventata insufficiente. Il 14 agosto 1845 il Cardinale Arcivescovo Placido Maria Tadini lanciò un appello per la raccolta di fondi necessari alla costruzione di una nuova chiesa, proprio accanto a quella antica. Tale fu lo slancio dei fedeli, che i lavori poterono cominciare l’anno successivo, secondo il progetto dell’architetto Domenico, Cervetto, in seguito sostituito da quello dell’ingegner Camillo Galliano in stile neoromanico, con ben tredici altari. Furono più volte interrotti i lavori,   a   causa   dei   moti   dei   1848   prima e dell’epidemia di colera del 1884 poi, ma giunsero a compimento nel 1904. La nuova chiesa costruita a fianco di quella antica ed intitolata a Nostra Signora della Guardia e Santo Stefano fu consacrata il 23 agosto 1908 e lo stesso giorno la millenaria chiesa di Santo Stefano fu chiusa al culto e tale restò per ben 47 anni, dovendo anche passare alla “rivale” il suo ricco patrimonio di opere d’arte.

Quello che successe solo pochi anni dopo, il 17 gennaio 1912, ha quasi il sapore di una rivalsa. La navatella sinistra dell’abbazia crollò, forse per una contrazione dei tiranti causata da un vento freddissimo, e danneggiò molto seriamente la chiesa nuova che era distante solo pochi metri.

Dei lavori di ripristino fu incaricato l’architetto Alfredo d’Andrade che purtroppo morì nel 1915, così l’edificio antico, pur ricostruito filologicamente, fu di nuovo abbandonato ad un progressivo degrado, anche a causa dell’entrata in guerra dell’Italia.

I bombardamenti della seconda guerra mondiale, in particolare quello del 7 agosto 1943, colpirono duramente entrambe le chiese. Quella nuova la si dovette abbattere, tanto gravemente era stata danneggiata. L’Abbazia invece, pur se priva di metà facciata, muro sud, copertura e canonica, restò spavaldamente in piedi.

Dopo le vicende belliche fu l’Arcivescovo Giuseppe Siri che si batté perché l’antica chiesa fosse ricostruita secondo le linee primitive, con la facciata a fasce alterne di pietra e marmo, le bifore e la cappelletta sul lato sinistro, all’interno rialzati il presbiterio e l’altare e riportata alla luce l’antica cripta. L’attesa fu lunga dieci anni, ma finalmente l’11 dicembre 1955, quando la statua della Madonna della Guardia ritornò nella sua cappella, portata a spalle fra ali di popolo esultante, l’Arcivescovo poté consacrare e riaprire al culto con una solenne cerimonia l’antica Abbazia di Santo Stefano.