SCHEMA RIASSUNTIVO ABBAZIA SANTO STEFANO

L’abbazia di Santo Stefano è una delle più antiche chiese di Genova, sorta sul sito della precedente chiesa di San Michele.

Se è nota la venerazione che S. Michele godeva presso i Longobardi (San Michele di Pavia, San Michele di Monte Garga), il culto del santo giunse a Genova probabilmente in seguito all’arrivo dei Benedettini.

Proprio la venerazione particolare che questi monaci avevano nei confronti dell’Arcangelo fece sì che nel V secolo fosse dedicata a  San Michele e San Gabriele una chiesuola primitiva già presente in loco.

Inizialmente la chiesa era situata fuori dalle cinta murarie del 1155, in quella zona che aveva contenuto il cimitero preromano e romano.

Inoltre reperti archeologici avvenuti in tempi diversi, nella collina che andava dalla zona del Piano a quella di Piccapietra, dimostrano la presenza di una Necropoli precristiana ed un cimitero cristiano.

Infatti, se il bassorilievo sepolcrale risalente al IV d.C. (che attualmente funge da architrave alla porta che immette nella cappella della Madonna della Guardia) proviene da detta area cimiteriale, il ritrovamento della lapide del Suddiacono Santolo, morto probabilmente nel 493, testimonierebbe la presenza di un cimitero anche in era cristiana.

 

Inoltre la chiesa era poco distante dalla chiesa di S. Andrea della Porta.

Le due chiese nel Medioevo si potevano considerare come gli stipiti di un ingresso per il quale si accedeva alla Val Bisagno.

 

Tuttavia i primi documenti scritti che testimoniano l’esistenza di un monastero, abitato da monaci e monache che formavano famiglie monastiche distinte, rette da rispettivi superiori, sono solo del 965 e del 969.

Tale complesso monastico, assunse un ruolo rilevante nello sviluppo urbanistico della Genova medievale e, con il cenobio di San Siro, fu uno dei nodi essenziali della rinascita cittadina.

 

Nello spazio di un secolo Genova, nonostante la tremenda scorreria saracena del 936 che la lasciò spopolata e semidistrutta, riuscì a diventare la maggiore potenza navale del Mediterraneo.

Ciò grazie:

  • sia ai vescovi che ricostruirono chiese ed abbazie con l’aiuto degli ordini monastici della regola benedettina che troviamo a santo Stefano e Santa Sabina.

Gli edifici religiosi vengono ricostruiti in nuove e definitive forme ma, specialmente nelle chiese dipendenti dal Vescovo, vengono riutilizzati i più importanti elementi architettonici delle fabbriche precedenti, quali le colonne monolitiche e i capitelli classici.

Il fatto di provenire da chiese anteriori preromaniche, determina quindi il permanere del tradizionale impianto basilicale delle navate, come è tuttora visibile nella stessa cattedrale di San Lorenzo.

Gli ordini monastici chiamati a ricostruire le chiese distrutte dai saraceni e a costruirne di nuove nelle periferia, furono più liberi nell’impostare schemi nuovi caratteristici dell’area padana di civiltà lombarda negli sviluppi in evoluzione con pilastri polistili e soluzioni più complesse nelle coperture a volta e a cupola.

Gli elementi tradizionali, cui non erano estranee influenze mediterranee di ispirazione orientale riconoscibili nelle strutture delle cupole su pennacchi sferici di tipo bizantino, negli alti tiburi ottagonali, nelle archeggiature cieche e nei motivi ornamentali, si combinano con sistemi costruttivi schiettamente lombardi, importati dai maestri comacini, presenti fin dalla metà dell’XI secolo, e, poco dopo, elaborati dalle maestranze antelamiche.

Si determina così, attraverso differenti apporti, una particolare architettura religiosa che trova un suo denominatore comune nella sua essenzialità delle strutture, nella semplicità delle forme e in quell’aspetto rude e severo accentuato dall’uso della pietra scura delle cave locali lasciata in vista: il popolo genovese, infatti, non è incline a concessioni decorative e a ricercatezze formali.

 

  • sia alla popolazione che ricostruiva case e navi per la ripresa dell’attività marinara,
  • sia alla costituzione delle prime società armatoriali ad opera di cittadini proprietari di navi che si trovano in difficoltà per le scorrerie piratesche dei Mori di Spagna.

Si costituì nelle zone orientali una vasta proprietà fondiaria, che favorì, nella periferia l’affermazione del potere ecclesiastico, in contrapposizione all’avanzata della nobiltà, che dai feudi tendeva a trasferirsi nel rinnovato centro urbano per acquisirvi potere politico.

Intorno all’abbazia si concentrò un vasto burgus, ma solo nel XIV secolo la chiesa veniva inclusa entro la cinta muraria, mentre il monastero fu in parte demolito per l’ampliamento delle mura a causa della minaccia del Barbarossa.

 

Organizzata in autonomo Comune, generato dalla prima “Compagna”, la piccola città medievale si popola e si amplia entro e fuori le mura, estendendo man mano sulle riviere i suoi domini per fronteggiare la nascente rivalità con Pisa.

 

In epoca bizantina il primo nucleo abitato dal quale Genova si sarebbe sviluppata, si era formato infatti sul colle scosceso del “castrum”, nella zona di Castello, intorno alla chiesa Matrice di Santa Maria, dotato di una cinta muraria a sua difesa.

Questa:

  • Saliva dalla scogliera delle Grazie verso Sarzano fino alla Porta Soprana dove confluivano le strade dal levante;
  • Da qui scendeva al mare, ai piedi del colle, dove le navi avevano riparo, fino alla Chiesa di San Giorgio (già documentata nel 947 e testimone della remota introduzione del culto del Santo di Cappadocia eletto a simbolo e patrono dei genovesi). Nella zona di san Giorgio si apriva una seconda porta per lasciare il passo alla via occidentale che, attraverso il Canneto, il Campo e Prè, costeggiava il litorale fino al Polcevera, dove giungeva da Libarna la via Postumia.

Le mura vennero poi estese fino a Banchi dove si apriva la porta detta di S. Pietro per la chiesa edificatavi subito dopo. Queste mura, che nel 952 sono documentate come “murus civitatis”, determinarono fin d’allora la tripartizione divenuta più tardi ufficiale dell’abitato in “castrum”, “civitas” e “burgus” (cioè il quartiere commerciale con i cantieri, le officine, le botteghe artigiane e i magazzini).

 

Dal 970 al 985 il Vescovo di Genova era Teodolfo II.

Egli prese a cuore talmente tanto la sorte del Monastero e Chiesa del Protomartire Stefano da esserne considerato il fondatore nel 972. Infatti:

  • riedificò con ampliamenti la Chiesa. Prima dell’intervento di Teodolfo, l’abside della chiesa era rivolta ad oriente ed aveva sul fianco sinistro una torre campanaria completamente staccata da essa ed isolata.

Questa torre, che si ritiene anteriore (di età bizantina), servì da baluardo militare, venendo più volte presidiata a difesa della città, specialmente al tempo delle lotte tra Guelfi e Ghibellini.

A seguito dell’ampliamento fatto eseguire da Teodolfo II, l’abside della chiesa attuale si appoggiò al campanile.

  • ingrandì il monastero facendo arrivare monaci dall’Abbazia di S. Colombano di Bobbio ed apportò radicali trasformazioni all’edificio

 

Tra il 1054 e il 1135 la chiesa sarebbe stata eretta parrocchia e nel 1217 Ugolino Conti (futuro papa Gregorio IX) la consacrò in occasione del rifacimento della facciata (nelle forme attuali, tranne per la presenza dell’ala sinistra, cioè della Cappella della Madonna della Guardia, databile 1497).

 

Proprio nella facciata si nota il carattere di transizione dal romanico al gotico: fu, infatti, la prima costruzione genovese che introdusse l’uso del paramento bicromo di marmo e di pietra nera.

Nel 1306, l’Abate Nicolò Fieschi fece costruire la bellissima cupola in laterizio; e, all’epoca dell’Abate Azzo, è ritenuta databile la cella campanaria in mattoni con le doppie serie di polifore, alzata in due riprese.

 

Il Pontefice Bonifacio IX con bolla del 21 settembre 1401 passò in Commenda l’Abbazia di S. Stefano, conferendola a Ludovico Fieschi (fu Nicolò).

 

Nel 1529, l’Abate Giovanni Matteo Giberti, vescovo di Verona, ultimo Commendatario, diede l’abbazia e il monastero ai monaci Olivetani, che vi rimasero come proprietari fino al 1775 e come ospiti fino al 1797.

 

Nel 1776 l’edificio religioso passò al clero secolare.

 

Venduto a privati nel 1815 e ormai in piena decadenza, il monumento rischiava un triste destino perché la popolazione dell’antico e storico sestiere di Portoria andava aumentando e l’antica chiesa si rivelava insufficiente.

L’Arcivescovo di Genova si appellò, quindi, a Parrocchiani e Cittadini, per la costruzione di una nuova chiesa: questi risposero con slancio, e le offerte elargite consentirono i lavori di fondazione.

 

Nel 1846 l’architetto Domenico Cervetto si ispirò per il disegno allo stile neoclassico ma i moti del 1848 fermarono ogni iniziativa; inoltre nel 1884 la città fu colpita dall’epidemia del colera.

Tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento si realizzava la futura Via XX

Settembre, sul tracciato delle antiche vie Giulia e della Consolazione, una strada che divenne in breve l’asse del nuovo centro della città. Il primo tratto della via Giulia andava dalla Piazza San Domenico (con l’omonima chiesa del XIII secolo), alla porta dell’Arco, cioè uno dei varchi nelle mura edificate nel XIV secolo, sotto il monastero di Santo Stefano.

Il progetto, che mirava a diradare il tessuto antico in favore di un rettifilo, era dell’ingegnere e imprenditore Cesare Gamba che prevedeva la demolizione di alcune cappelle sul fianco destro dell’antica chiesa e la costruzione di porticati neogotici sottostanti.

 

Il Municipio si assunse l’onere di restaurare l’antico edificio e i restauri furono eseguiti sotto la direzione del Prof. Giovanni Campora.

 

Nel 1898 fu ricostruito in “stile” il corrispondente muro meridionale e nel 1901 fu demolita la casa a tre piani sovrapposta all’abside; successivamente venne abbattuto anche un ulteriore fabbricato che aveva fagocitato la base del campanile.

 

Solo nel 1904 l’Arcivescovo di Genova Mons. Edoardo Pulciano procedette alla benedizione e alla posa della prima pietra della nuova Chiesa.

Il disegno dell’Architetto Cervetto, venne ben presto sostituito con quello in stile neoromanico dell’ing. Camillo Galliano (coadiuvato in seguito dall’ing. Cesare Barontini).

Il tempio sorse sull’area di demolizione del monastero secentesco, a tre navate divise da leggeri pilastri, alternati da colonne di granito lucido di Baveno.

Secondo il progetto dovevano essere presenti:

  • 13 altari, oltre il maggiore, sei per ciascuna delle due navate laterali in cappelle rientranti
  • la cupola ottagona
  • vetri istoriati delle finestre ed occhi nel coro, nelle cappelle, lungo la chiesa, sopra le porte del valente L. Balmet di Grenoble.

 

Grazie all’interessamento dell’Abate Prevosto  Rev. Luigi Casella, che allora governava la Parrocchia, i lavori procedettero alacremente: già nel 1908 la nuova chiesa fu benedetta, aperta al pubblico ed intitolata a “N.S. della Guardia e S. Stefano”. Lo stesso giorno la Chiesa di S. Stefano venne chiusa al culto.

Alla nuova chiesa venne tramandato pressoché interamente il ricco patrimonio di opere d’arte, che nel corso dei secoli si era andato costituendo presso l’antica abbazia.

Come riferito dal “Corriere Mercantile”, il 17 gennaio 1912  crollò la navata di N. S. della Guardia nella vecchia chiesa sopra una navata laterale della nuova, con danni rilevanti.

La Soprintendenza ai monumenti dispose che la facciata della navata laterale dell’antica chiesa venisse ricomposta secondo le sue linee originali, riaprendo l’elegantissima trifora che in precedenza era stata murata.

 

Il 10 giugno 1940, l’Italia, alleata della Germania, si schierò contro Francia ed Inghilterra nel Secondo Conflitto Mondiale: ne seguirono, per la nazione e la città, tribolazioni, lutti ed immani rovine.

Nei bombardamenti anglo-americani del 23 ottobre , 7 novembre 1942, e in quello della notte  fra il 7 e l’8 agosto 1943, sia la nuova che la vecchia chiesa subirono danni gravissimi:

  • in quello del 23 ottobre 1942 entrambi gli edifici ebbero i tetti sfondati e subirono danni anche gli altari;
  • in quello del 7 novembre 1942 una bomba colpì un angolo della nuova chiesa e distrusse la canonica che le sorgeva accanto. Fu totalmente distrutta la navata destra e quella sinistra ebbe gli altari infranti.
  • in quello dell’agosto 1943 si ebbero le conseguenze più gravi.

Dopo le bombe e gli spezzoni incendiari, della vecchia chiesa rimase in piedi:

  1. la cupola
  2. il campanile,
  3. il muro sinistro e mezza facciata spaccata da cima a fondo

Dalla parte di via XX Settembre sprofondò inoltre anche il sottostante porticato.

 

Nella nuova chiesa furono rovinati:

  1. i tetti dell’abside e della cupola, che nelle precedenti incursioni erano stati danneggiati soltanto lievemente
  2. tutti gli altari
  3. gli affreschi che risultano scrostati e anneriti
  4. le statue.

 

Dopo l’ultima guerra, i rinnovi urbani realizzati nei borghi orientali di Piccapietra e di Via Madre di Dio, sono stati così completi e definitivi da spianare nel primo caso un’intera collina, travolgendo le mura del XII secolo compresa la Porta Aurea.

Il “piccone” demolitore ha cancellato per sempre il volto dell’antico e poetico territorio parrocchiale di S. Stefano, dove sorgevano le grandi moli degli ospedali degli Incurabili (XVI sec.) e di Pammatone (XV sec.).

Questo territorio era denso di vicoli stretti e tortuosi, sfocianti in piazzette dalle caratteristiche singolari, sormontati da archi graziosi, intestati a nomi di Santi, di personaggi illustri, a corporazioni, testimonianza di una popolazione dalla attività febbrile.

I vicoli dell’antica Portoria che avevano un aspetto famigliare non esistono più, come anche  le numerose case dagli antichi portali in ardesia artisticamente scolpita, caratterizzate dalla presenza all’angolo del tempietto con la statuina della Madonna e dell’immancabile lumino acceso, sostenuto da artistici bracci in ferro battuto.

 

La Chiesa di S. Stefano,  anche questa volta risorse dalle rovine bella e maestosa per l’interessamento del Cardinale Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova, che decise per la restaurazione della vecchia Chiesa.

I lavori di restauro, iniziati nel 1946 dal Soprintendente Prof. Carlo Ceschi, poi trasferito a Roma, e continuati dall’Architetto Trinci della Soprintendenza di Genova, si protrassero fino al 1955.

Furono 10 anni di attesa e di lavoro affrontati dal Rev. Castagnola e l’11 dicembre 1955 il Card. Siri consacrò e riaprì solennemente al culto, dopo quarantasette anni di chiusura, la chiesa.

I successivi restauri del 1985-1991 hanno mirato soprattutto a consolidare le strutture e a migliorare l’aspetto degli spazi esterni.

 

Oggi la chiesa, in Piazza S. Stefano 2, appare isolata da quel che la circonda.

Affacciata sulla centralissima Via XX Settembre, circondata da palazzi eclettici e liberty, si trova nelle vicinanze della spianata dell’Acquasola e lambita dal Ponte Monumentale (anch’esso opera progettata dall’ingegner Gamba).

 

 

 

 

 

 

  1. Descrizione della facciata

L’ alta facciata a capanna è listata a bande orizzontali bicrome, in marmo e pietra.

Tali bande, inoltre, si estendono anche sull’adiacente prospetto della Cappella della Guardia (una sorta di navatella sinistra totalmente rifatta).

 

La facciata, nella parte principale presenta:

  • Un portale maggiore, a pseudoprotiro a strombo e ad archivolto ogivale, nel cui architrave è visibile un’iscrizione celebrativa di Antonio da Passano.

Il portale maggiore riproduce forme tipiche dell’architettura genovese fra ‘200 e ‘300; i blocchi dei capitelli, inoltre, sono caratterizzati da uno spirito ancora prossimo a quello tardo romanico.

Le iscrizioni apposte dai Da Passano ai lati del portale maggiore e accompagnate da stemmi gentilizi corrono su sei fasce di marmo; tuttavia quelle di destra sono molto frammentarie.

Il fatto curioso è che;

  • le prime quattro commemorano fatti e personaggi dal XII al XV secolo e sono scritte in lettere gotiche epigrafiche;
  • le due più basse ricordano personaggi del XVI e XVII secolo e sono scritte in capitali.

Poiché tutte le iscrizioni sembrano essere state realizzate al principio del ‘600, c’è la possibilità che ci si trovi di fronte a un singolare caso di scrittura neomedievale, o alla semplice ricopiatura di epigrafi più antiche.

Nel secolo XVII, volendo imitare la fronte della storica chiesa di San Matteo, i nobili Da Passano, poiché avevano contribuito ai restauri dell’iterno, ottennero di solcare le listelle marmoree della facciata con iscrizioni che illustrassero le gesta della loro famiglia: in realtà le gesta gloriose furono compiute dai Pessagno di Portogallo e non dai Da Passano.

 

  • una grande finestra circolare;
  • un frontespizio, a doppio spiovente, che racchiude una quadrifora formata da due bifore ogivali accostate e riunite sotto un arco a ogiva. Nella lunetta centrale della bifora in alto (che racchiude altre due bifore minori), si vede scolpito, con cura ed eleganza, il simbolo dell’agnello.

I bacini ceramici, inseriti fra gli archetti pensili lungo lo spiovente principale, risalgono ad un’operazione integrativa del 1897-98.

In verità all’epoca esistevano già gli incavi e almeno tre fondi di bacini, segno che l’inserimento era già stato programmato in epoca medievale.

In questa quadrifora, come anche nel portale e  negli archetti di coronamento, viene impiegato l’arco a sesto acuto. Questo, pur non essendo una novità nella seconda metà del XII secolo, è qui ben definito.

 

A sinistra del corpo maggiore è addossata un’ala costruita più tardi nello stesso stile, con un portale e sovrastante trifora.

In questo portale:

  • si può ammirare nella lunetta un’interessante rilievo romano del IV secolo che rappresenta la figura della defunta, di due geni alati e le personificazioni di Oceano e Terra.
  • si può ammirare un architrave a rilievo con le figure di S. Michele e S. Giovanni Battista, Santi protettori della chiesetta, risalente ai primi del ‘600.

 

Le finestre (sia quella trifora a sinistra con piccolo oculo, sia quella quadrifora al centro in alto) sono molto condizionate dai restauri, che però non hanno ricostruito la ruota del grande rosone.

 

Nella facciata si possono osservare inoltre le mensole per l’appoggio di un portico antistante di abbellimento (costruzione tipica delle chiese dell’Ordine benedettino) la cui edificazione fu arrestata per cause ignote.

 

 

 

  1. Descrizione dell’esterno

Il rifacimento della facciata ha naturalmente distrutto ogni traccia di quella anteriore , ma tutto il resto della chiesa si è dimostrato costruttivamente e stilisticamente unitario, per cui possiamo essere sicuri che debba trattarsi di quella costruita dai benedettini.

 

  • La grande monumentalità del fianco sud deve molto ai restauri, che hanno ricucito il paramento rinnovando anche una sequenza di tombe ad arcosolio risalenti al XVII.

Nel lato meridionale è presente un tiburio ottagonale in cotto, dal vivo colore contrastante con le strutture sottostanti rivestite da paramento di pietra dalla calda tinta dorata.

In corrispondenza del tiburio, le murature medievali tornano a farsi chiare, con tanto di fregio ad archetti in forte aggetto.

Tuttavia, sono in una zona di non facile lettura a causa della scomparsa degli edifici che vi erano addossati: ciò rende del tutto inutile, ad esempio, la presenza di una porta che dal coro attualmente si apre nel vuoto, ma che un tempo immetteva nel monastero.

  • Nel lato nord è presente la torre campanaria. Questa è a bugne di pietra lavorate (a faccia a vista su tutti e quattro i lati) per tre quarti dell’altezza e superiormente in mattoni, con quadrifore al penultimo piano e pentafore all’ultimo. Nel suo interno ha inoltre delle scale poste su archi dalle forme rialzate nel centro (costante caratteristica dell’architettura romanica lombarda di quest’epoca).
  • Nel lato est è presente l’abside.

La decorazione architettonica si concentra nell’abside che svolge, tanto all’interno quanto all’esterno, un motivo di arcate cieche su semicolonne, anch’esso unico in Liguria.

  • Sopra l’alto zoccolo racchiudente la cripta, attraversato dalle profonde monofore che le danno luce, si sviluppano sette arcate sorrette da semicolonne uscenti da lesene che fanno da sfondo e proseguono ininterrotte nel sottarco accentuandone l’effetto chiaroscurale.
  • Gli archi sono sottili e leggermente lunati.
  • I capitelli a foglie e piccole volute sono d’imitazione classica.
  • Le basette presentano rialzamenti protezionali agli angoli.
  • Le arcate sono coronate quindi da una fila di arcatelle minori, appena aggettanti dal fondo liscio.
  • L’abside si conclude dopo un altro corso di pietre, con una cornice sgusciata.

È assai difficile determinare l’ispirazione che ha generato questo insieme decorativo in epoca così lontana in una chiesa genovese. Più o meno contemporaneamente forme simili erano apparse anche in altre regioni come la Puglia dove, avevano avuto le maggiori affermazioni in alcune cattedrali: ciò ha fatto pensare ad influssi comuni ed estranei, contemporaneamente importati nelle città marinare che prime avevano lanciati i loro commerci sulle rotte orientali.

Una delle ipotesi fondamentali può essere quella che si riferisce alle possibili influenze dell’architettura armena, che aveva realizzato insigni monumenti dove cupole poligonali con raccordi a cuffia e l’ornamentazione delle arcate cieche risultano pienamente risolte in pieno X secolo.

Non va però dimenticato che la forma più semplice delle arcate cieche era già stata usata dagli architetti ravennati fin dal V secolo e, varcando le Alpi, si era diffusa in Val Padana in età protoromanica dove risulta presente nelle chiese carolingie.

Arcate cieche su semicolonne e lesene possono avere avuto in Lombardia uno sviluppo autonomo prima di raggiungere la forma definitiva che si vede nelle absidi delle chiese bergamasche.

 

 

 

  1. Descrizione dell’interno

La chiesa romanica di Santo Stefano è stata fin dalle origini ad una sola navata, con ampio presbiterio rialzato  (rarissimo a Genova) e unica abside di pari larghezza.

 

Contro la parete interna della facciata è stata ricomposta la splendida cantoria (voluta dai Feschi alla fine del 400) degli scultori fiorentini Donato Benti e Benedetto da Rovezzano del 1499, in marmo, retta da mensoloni e ornata da quattro formelle in bassorilievo con figurazioni allegoriche e mitologiche delle virtù della musica: sono infatti rappresentati David, Orfeo, Jubal e Apollo che simboleggiano diversi strumenti musicali e il potere della musica.

 

All’interno sono presenti inoltre numerose opere d’arte, tra cui la più importante è un olio su tela sulla parete di destra: si tratta del Martirio di S., una grande pala capolavoro di Giulio Romano, dono dell’ultimo commendatario G.M. Giberti (1519-29), pio vescovo di Verona.

La sua pianta misura all’interno m 10,80 di larghezza per quasi 40 metri di lunghezza, ma la forma così allungata è attenuata dalla netta distinzione tra la navata e la zona presbiteriale.

 

La navata era divisa in due quadrati, da due grosse lesene che spezzavano a metà l’uniformità delle pareti alte e lisce. Delle due lesene sono state cancellate le tracce in uno dei riattamenti che si erano susseguiti dal seicento all’ottocento.

 

Un poderoso arcone costituito da arco e sottoarco, poggiato su semplici lesene e sottolesene, costituisce il passaggio tra la navata con tetto a capriata lignea e il presbiterio coperto a cupola.

 

Un secondo arcone, leggermente più largo e più alto, crea poi lo spazio absidale conchiuso dall’ampio catino emisferico.

 

Se la navata è limitata da alte fiancate appena ravvivate da rade monofore, senza altri ornamenti all’interno (a parte il tetto in origine dipinto e ricostruito sul modello dell’antico), la zona presbiteriale rialzata dalla navata, è oggetto di un interesse notevolissimo per la sua grandiosa soluzione architettonica.

In realtà l’impostazione attuale del presbiterio è semplice e l’effetto di grandiosità è dovuto unicamente alle proporzioni dell’ambiente ed ai rapporti tra i suoi elementi.

Il quadrilatero di base, che misura m 11,10 è definito sui fianchi dalle murature laterali che, pur elevandosi oltre la copertura, non sporgono dal filo della navata, conservando in tal modo quel senso di continuità che rende unitario l’intero ambiente della chiesa.

 

La cupola vasta quanto il presbiterio, si svolge ottagona impostandosi sul breve tamburo attraverso le quattro eleganti cuffie angolari.

La muratura lapidea si ferma al di sopra del tiburio dopo i raccordi angolari, dove un cordone orizzontale segna la partenza degli spicchi a sesto rialzato della cupola vera e propria costruita in mattoni: risulta quindi essere tutta in pietra scura squadrata e  martellinata.

Analogamente, all’esterno, il tiburio racchiudente la cupola, continua in mattoni da quello stesso livello giustificando l’ipotesi di un completamento o di una ricostruzione posteriore.

Il cordone d’imposta, all’interno, si accorda negli otto angoli con altrettante mensole che offrono appoggio ai costoloni rotondi che accompagnano, separandoli, gli spicchi di volta della cupola e si uniscono al centro nella pietra di chiave ornata da un Agnus Dei.

È del 1306 una parziale ricostruzione della copertura: essendo, infatti,  la chiesa praticamente priva di fondazioni, la cupola originaria non avrebbe resistito alla propria spinta.

Ciò è testimoniato dal grosso contrafforte, addossato esternamente all’angolo sud-est del quadrato presbiteriale, la cui costruzione, sul lato dove non c’era il campanile non potrebbe essere altrimenti spiegata.

La prima cupola può presumersi fosse in tutto simile all’attuale, salvo i costoloni.

Lo schema architettonico del presbiterio con cupola ottagonale su raccordi angolari a calotta emisferica ed abside semicircolare tutta sporgente, costituisce  una espressione unica in Liguria dove il tipo basilicale permane anche nelle stesse costruzioni benedettine  “extra moenia” come San Siro, Santa Sabina e Sant’Andrea.

Santo Stefano sfugge anche alla tendenza a svolgere in torre nolare, la stessa cupola, per mantenersi strettamente legata agli schemi lombardi.

 

Nell’abside di Santo Stefano non sono estranei richiami lombardi per la decorazione ad arcatelle continue che si svolge sopra gli archi dell’ordine principale. Queste arcatelle, che in S. Bartolomeo del Fossato hanno avuto sulla fine dell’XI secolo il vero carattere dei fornici lombardi, costituiscono invece in Santo Stefano un’interpretazione appiattita delle nicchie svuotate delle più antiche absidi lombarde.

Il motivo delle arcate cieche su colonnine si ripete in Santo Stefano anche all’interno dell’abside, secondo uno schema architettonico raro nell’Italia settentrionale, ma frequentissimo nelle chiese medievali della Provenza.

 

La cripta: descrizione,considerazioni, ipotesi.

La cripta che oggi vediamo è quella che è stata ripristinata nel secondo dopoguerra. Le colonne, quasi tutte rifatte nel 1955, definiscono una sala a 5 navate. Di originale, però, restano solo 3 capitelli medievali e 1 capitello romano. Tutti i capitelli presentano una combinazione di semplici foglie e volute. Alcuni capitelli, venuti alla luce durante gli scavi per la ricostruzione, costituiscono elementi utili per la datazione. Tuttavia, questi non manifestano unità di origine, né di stile. Vi si trova : 1 capitello romano; altri di tipo alto-medievale; gli ultimi due presentano forme e caratteristiche diverse. Questo tipo di capitelli, con il tipo di muratura dell’abside, richiamano forme protoromaniche ( di cui a Genova si trova un importante esempio nella Chiesa dei santi Nazario e Sauro).
Nella cripta si trovano : un altare, una fonte battesimale, alcuni interessanti bassorilievi.
Questa parte della chiesa era sempre stata ritenuta come “cripta”, salvo rare eccezioni (Castagna). Tuttavia, in seguito alla distruzione dovuta ai bombardamenti e alle conseguenti opere di scavo e di restauro, opere alle quali lavorò il Ceschi, è stata formulata l’ipotesi che in origine non doveva trattarsi di una cripta, ma di una piccola chiesa.
Durante gli scavi e sulla base dei ritrovamenti è stato possibile giungere alla ricostruzione iconografica dell’ambiente; inoltre, l’esplorazione delle strutture ha permesso di concludere che si trattava di una cripta anteriore alla chiesa romanica. I costruttori dell’XI secolo, dovevano aver conservato una cripta più antica, che risulta essere stata intonacata dall’esterno. Un’attenta osservazione ha dimostrato che questa cripta era costituita da due sole file di colonne, quindi di 3 sole navate.

Inoltre, le basi delle varie colonne non erano allo stesso livello, e ciò ha fatto desumere che vi sia stato un rimaneggiamento nel momento della costruzione della nuova chiesa.
La conclusione del Ceschi è che, prima dell’XI secolo, doveva esistere una chiesa importante, di dimensioni minori rispetto all’attuale, fornita di cripta a tre navate. Questa chiesa sarebbe stata demolita alla fine del X secolo, salvando però la cripta, forse per ragioni di culto.
Varie osservazioni, inoltre, fanno pensare a lavori eseguiti in epoche diverse.
L’abside interna della cripta risulta apparecchiata con maggior cura e con materiali diversi rispetto alle lesene che si appoggiano all’abside e che sostengono le volte. Queste ultime presentano una lavorazione molto rozza, che fanno datare l’opera  non oltre il X secolo.
Un altro elemento fa pensare che in origine non si trattasse di cripta: la difficoltà a trovare in Italia un sistema di costruzione a cripta non anulare (e qui non vi sono elementi per poterla considerare tale), prima del  X secolo. Ci si troverebbe quindi di fronte ad una piccola aula absidata, che non può essere considerata cripta e che per la rozzezza della muratura può essere datata intorno al VII secolo.
Ulteriori elementi di carattere storico avvalorano l’ipotesi.
Secondo gli studiosi, infatti, la torre campanaria sarebbe stata una torre bizantina a difesa della città, dato che la provincia ligure era una roccaforte del governo bizantino. Ciò fino alla conquista longobardica, ad opera di Rotari, intorno al 640/643.  I Longobardi, una volta occupate le fortezze bizantine, avevano l’abitudine di erigere piccole chiese dalla caratteristica dedicazione esaugurale .