IL CONTRIBUTO DEI PADRI CONCILIARI ORIENTALI

INCONTRO CON IL CLERO DELL’EPARCHIA DI LUNGRO
18 aprile 2013
IL CONTRIBUTO DEI PADRI CONCILIARI ORIENTALI NELLE DELIBERAZIONI DEL VATICANO II
(Applicazione dopo 50 anni)
+ Dimitrios Salachas

Il contributo dei Padri conciliari orientali nel Vaticano II (quasi 200 tra 2.200 Vescovi latini) ? stato sia nella fase preparatoria sia nella discussione e redazione dei documenti, specialmente LG n. 23, circa l’origine apostolica delle Chiese orientali e in particolare delle Chiese patriarcali; OE interamente dedicato alle Chiese orientali cattoliche e ai loro rapporti con le Chiese orientali ortodosse; UR, sull’ Ecumenismo, il quale riguarda direttamente le Chiese orientali ortodosse e le Comunit? esslesiali provenienti dalla Riforma, ma nel n. 17 si riferisce brevemente anche ai cattolici orientali; il CD, il quale nn. 23 e 38 si riferisce alla sollecitudine pastorale dei Vescovi latini che hanno nelle loro diocesi fedeli orientali, come anche dei Vescovi orientali nei cui territori esistono pi? Chiese di diverso rito; PO n. 16, che tratta del celibato e dei sacerdoti orientali uniti in matrimonio.
La pubblicazione degli Atti del Concilio ci permette di prendere visione degli interventi nel Concilio, pronunciati di fatto oppure a volte consegnati alla Segreteria del Concilio, da parte dei Patriarchi e dei vescovi orientali; come anche le osservazioni della Gerarchia delle Chiese patriarcali, le note inviate alle differenti commissioni preconciliari oppure conciliari da parte dei vescovi orientali che ne erano membri ; la corrispondenza officiale dei Patriarchi e dei loro sinodi con la Santa-Sede relativamente a delle questioni sollevate al Concilio oppure in seguito a proposito della messa in esecuzione delle decisioni del Concilio. Faccio notare anche la voce vibrante del Cardinale Yosyf Slipyi, confessore della fede, e della sua gerarchia ucraina, e di alcuni vescovi maroniti, come il Patriarca Meouchi, e dei vescovi Ziade, Dumith.
Infine molti scritti, libri e articoli riportano gli interventi storici dei Padri sinodali orientali, soprattutto il libro del Patriarca Greco Melchita Maximos IV, Padre conciliare, «L’Eglise Grecque Melkite au Concile, discours et notes du Patriarche Maximos IV et des Pr?lats de son Eglise» (Beytouth, 1967); il libro di Mons. Neofitos Edelby, metropolita greco-melkita di Aleppo, Padre conciliare, «Les Eglises orientales catholiques, D?cret «Orientalium Ecclesiarum» (Paris 1970), in cui descrive l’iter della redazione dei diversi paragrafi del Decreto OE, come anche il suo Diario personale, pubblicato recentemente.
Tutto questo ricco materiale ? sufficiente per conoscere “il contributo dei Padri conciliari orientali nel Vaticano II”, i quali erano sostenuti da un gran numero di teologi occidentali, presenti al Concilio, con i quali si consultavano assiduamente, specie nella preparazione dei loro interventi in aula.
Nel Vaticano II le Chiese cattoliche orientali di diversi riti furono presenti con un numero discreto di rappresentanti, Patriarchi, vescovi, accompagnati da esperti teologi, uditori, uditrici e invitati laici, provenienti da diverse parti, rappresentando diverse nazionalit?. Ma il gruppo che si fece maggiormente notare e del quale i Mezzi di comunicazione avevano parlato spesso, era quello dei Greco-melchiti cattolici intorno al Patriarca Maximos IV. Questo Patriarca e la sua gerarchia nei loro interventi hanno sempre voluto riservare, nei loro pensieri come pure nei loro cuori, il posto dell’ Assente, cio? dell’ Ortodossia. Senza dubbio gli osservatori Ortodossi, i quali hanno seguito con la massima attenzione i lavori del Concilio, non hanno mancato di offrire discretamente il loro apporto costruttivo nei loro colloqui privati con i Padri conciliari e nelle Tavole rotonde organizzate dalle varie Agenzia-Stampa.
Per quel che riguarda i Greco-melchiti cattolici, ? giustamente il Patriarca ecumenico Atenagora, il quale aveva detto al Patriarca Maximos IV la ben nota frase “nel Concilio avete parlato a nome nostro”, volendo cos? sottolineare che tramite loro tutto l’Oriente, cattolico e ortodosso, ? stato presente ed ha fatto sentire la sua voce in questa storica assemblea che fu il Vaticano II. In effetti, gran parte dei documenti del Concilio, voluto dal Papa Giovanni XXIII, per l’ “aggiornamento della Chiesa cattolica, portano l’ impronta del Patriarca e dei vescovi melchiti, a volte pure criticati dalla maggioranza latina, ma spesso approvati e acclamati.
I Padri conciliari orientali intorno ai loro Patriarchi si consultavano continuamente, prima di ogni sessione conciliare, e preparavano i loro interventi su tutti gli Schemi che si discutevano in Aula.
Il Patriarca Maximos IV, nella Prefazione del suo libro citato, spiega le ragioni di questo ruolo marcato, svolto dalle Chiese orientali cattoliche ed in particolare dalla sua Chiesa greco-melkita, al Concilio Vaticano II:
«Le ragioni devono essere ricercate negli elementi provvidenziali della loro vocazione, come anche nel clima di libert? che i Papi Giovanni XXIII e Paolo VI hanno saputo dare alle deliberazioni del Concilio. Come primo dato della nostra
vocazione ? l’Ortodossia orientale con la quale non abbiamo mai perso il contatto […] Abbiamo sempre riservato nel nostro pensiero e nei nostri cuori il posto dell’Assente, di questa Ortodossia dalla quale proveniamo e che non abbiamo mai rinnegato, ma che abbiamo sinceramente creduto di dover concludere in una unione con il Cattolicesimo romano: unione alla quale abbiamo aderito come si presentava allora davanti a noi […] La sollecitudine di mantenere il contatto
con l’Ortodossia ci ha portati a nutrirci non solo dalle fonti esclusive del pensiero occidentale, ma si cercava sempre di risalire alle fonti viventi e vivificanti della verit? cristiana, stabilendo il contatto specialmente con i Padri d’Oriente, conosciuti e vissuti attraverso una liturgia dove tutto il pensiero ? condensato, e che abbiamo cercato di conservare puro da ogni deformazione. La nostra liturgia ci ha sicuramente fornito un grande contributo […]. Questo fatto ci ha permesso di essere dei testimoni di un pensiero complementare che cercava precisamente il Concilio.
L’Occidente, dopo secoli di evoluzione unilaterale, era pervenuto al termine della sua riflessione teologica. Era giunto agli estremi ai quali non poteva ormai uscire senza il ritorno alle fonti bibliche e a quell’ altra tradizione ecclesiale ed apostolica dell’Oriente, proprio per equilibrarlo, mitigarlo, completarlo; e abbiamo cercato di essere testimoni di questa altra tradizione nel Concilio Vaticano II, tanto fedeli che lo permetteva la nostra possibilit?» (pag. VII-VIII).
Oggi, a cinquanta anni dall’apertugiustamente
affermare che i Cattolici orientali, anche se in numero ridotto, hanno potuto cos? contribuire a realizare ci? che pi? tardi il Beato Papa Giovanni
Paolo II a potuto dichiarare «quel che, dalla provvidenza di Dio, ? giunto nella Chiesa, affinch?, riunita
dall’ unico Spirito, essa respiri con i due polmoni dell’ Oriente e dell’ Occidente e bruci nella carit? di Cristo
con un unico cuore dai due ventricoli». Questa immagine poetica ha un profondo senso ecclesiologico e ecumenico che supera ogni visuale giuridistica. Infatti se non fossero presenti gli Orientali, il Vaticano II sarebbe un Concilio puramente della Chiesa latina.
Gli interventi dei Padri orientali si riferivano quasi a tutti gli Schemi presentati e discussi in Aula conciliare, ma il loro ruolo specifico ? stato soprattutto nella preparazione, la elaborazione, la discussione e l’approvazione finale dei documenti conciliari che riguardano le Chiese orientali cattoliche (decreto Orientalium Ecclesiarum) e l’Ecumenismo (decreto Unitatis redintengratio). Grazie ai loro interventi nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Lumen gentium) ? stato inserito il paragrafo 23 circa l’origine delle Chiese patriarcali, attribuita alla Provvidenza Divina.
La genesi di questi documenti conciliari ? stata lunga e laboriosa dalla loro preparazione fino alla loro approvazione finale. Le discussioni furono lunghe, animate e qualche volta burrascose, segno che il dialogo nella stessa Chiesa cattolica – tra Orientali e Latini – come d’altronde nel passato ? stato abbastanza complesso, senza escludere i pregiudizi, i malintesi e le incomprensioni, causate spesso da ignoranza.
Tuttavia, l’approvazione finale da parte di una maggioranza eclatante dimostra che ? lo Spirito Santo che ha condotto i lavori del Concilio. Per il decreto Orientalium Ecclesiarum, su 2149 votanti, placet 2110. Per il decreto Unitatis redintengratio, votanti 2148, placet 2137.
E’ significativo dal punto di vista ecumenico, il modo sinodale con cui vengono firmati i documenti del Vaticano II: «Tutte e singole le cose, stabilite in questo decreto, sono piaciute ai Padri del sacro Concilio. E noi, in virt? della potest? apostolica conferitaci da Cristo, unitamente ai venerabili padri, nello Spirito Santo le approviamo, le decretiamo e stabiliamo; e quanto ? stato cos? sinodalmente stabilito, comandiamo che sia promulgato a gloria di Dio». Seguono le firme del Papa Paolo VI e dei singoli Padri. Questa era la tradizione antica.
Questi due decreti conciliari, di natura dottrinale e principalmente normativa, sono stati basati sulla Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Lumen gentium). Descrivono l’identit? delle Chiese orientali nella comunione cattolica e la loro missione ecumenica nella prospettiva del ristabilimento della piena comunione con le Chiese orientali ortodosse. Essi costituiscono anche la fonte immediata della codificazione canonica orientale che ? seguita, distinta da quella della Chiesa latina.
A questo proposito, il Patriarca Maximos IV si ? dichiarato contrario al progetto di un Codice di diritto canonico unico per le Chiese Orientali e per la Chiesa latina; temeva che in un Codice unico, «la disciplina latina sarebbe quasi integralmente imposta agli Orientali, cosa che significherebbe praticamente la “latinizzazione” pura e semplice dell’ Oriente, contro la quale tanto gli Orientali quanto la santa Sede lottano da lungo tempo»; aveva perci? proposto un Codice speciale di diritto canonico per le Chiese orientali, proposta accolta dal Concilio e da Papa Paolo VI, e pi? tardi realizzata dal Beato Papa Giovanni Paolo II.
A distanza di cinquant’ anni dall’ inizio del Vaticano II, mi sembra che una rilettura di questi due documenti appare evidente anche alla luce della nuova codifica del diritto canonico delle Chiese orientali, promulgata – il 18 ottobre 1990 – dal Beato Papa Giovanni Paolo II, ovvero del Codice dei canoni delle Chiese orientali (CCEO), distinto dal Codice per la Chiesa Latina. Questa disciplina rinnovata, per il bene dei fedeli cristiani cattolici orientali in tutto il mondo, ? stata voluta dal Concilio e intende essere soprattutto l’applicazione delle decisioni di questi due documenti conciliari.
E’ pertanto utile rivedere gli Atti del Concilio Vaticano II per fare questa rilettura, dopo aver evocato l’origine apostolica delle Chiese orientali descritte dalla Costituzione dogmatica LG, 23, e per riflettere sul futuro di queste Chiese nel contesto ecumenico attuale, esaminando in quale misura le nostre Chiese orientali in comunione con Roma abbiano in pratica operato il loro aggiornamento voluto dal Concilio.
L’origine apostolica delle Chiese cattoliche orientali
Anche se fondate nel corso del secondo millennio, dopo la rottura della comunione ecclesiale tra i Patriarchi orientali e la Sede romana, e pi? tardi in seguito all’ insuccesso delle numerose iniziative unioniste, le Chiese catttoliche orientali attingono alle fonti delle Chiese primitive e alla tradizione che viene dagli Apostoli e dai Padri.
La Costituzione dogmatica (LG 23) attribuisce l’origine delle Chiese orientali alla divina Provvidenza:
«Per divina provvidenza ? avvenuto che varie chiese, in vari luoghi fondate dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in molti gruppi, organicamente uniti, i quali, salva restando l’unit? della fede e l’unica divina costituzione della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un patrimonio teologico e spirituale proprio. Alcune fra esse, soprattutto le antiche chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno generate altre che sono come loro figlie, con le quali restano fino ai nostri tempi legate da un pi? stretto vincolo di carit? nella vita sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri. Questa variet? di chiese locali, fra loro concordi, dimostra con maggiore evidenza la cattolicit? della Chiesa indivisa. In modo simile le conferenze episcopali possono oggi portare un molteplice e fecondo contributo perch? lo spirito collegiale passi a concrete applicazioni».

Elementi canonici istituzionali delle Chiese cattoliche orientali: La comunione piena con la Chiesa apostolica di Roma.
Il decreto Orientalium Ecclesiarum, n.2, inserisce le Chiese orientali cattoliche all’interno della Chiesa universale; dichiara solennemente che le Chiese orientali che sono in piena comunione con la Chiesa apostolica di Roma, fanno parte della Chiesa universale: «La Chiesa santa e cattolica, che ? il corpo mistico di Cristo, si compone di fedeli, che sono organicamente uniti nello Spirito santo dalla stessa fede, dagli stessi sacramenti e dallo stesso governo e che unendosi in vari gruppi, congiunti dalla gerarchia, costituiscono le chiese particolari o riti. Vige tra loro una mirabile comunione, di modo che la variet? nella chiesa non solo non nuoce alla sua unit?, ma anzi, la manifesta; ? infatti intenzione della chiesa cattolica che rimangano salve e integre le tradizioni di ogni chiesa particolare o rito, e ugualmente essa vuole adattare il suo tenore di vita alle varie necessit? dei tempi e dei luoghi».
Con “Chiesa universale” s’intende la Chiesa di Cristo, costituita e organizzata in questo mondo come una societ?, che sussiste nella Chiesa cattolica governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui (cf. LG). In effetti, i fedeli cattolici orientali sono in piena comunione con la Chiesa cattolica in quanto uniti a Cristo dai legami della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico.
Il decreto OE – nel Proemio – assicura i cristiani cattolici orientali che «le istituzioni, i riti liturgici, le tradizioni ecclesiastiche e la disciplina della vita cristiana delle Chiese orientali sono oggetto di grande stima da parte della Chiesa cattolica». La ragione di questa grande stima consiste nel fatto che «esse sono illustri per veneranda antichit?, e in esse risplende la tradizione che deriva dagli apostoli attraverso i padri e che costituisce parte del patrimonio divinamente rivelato e indiviso della chiesa universale». «Perci? questo santo ed ecumenico concilio, preso da sollecitudine per le Chiese orientali, che di questa tradizione sono testimoni viventi, e desiderando che esse fioriscano e assolvano con nuovo vigore apostolico la missione loro affidata». Questo non ? un semplice augurio sentimentale e commovente, ma una deliberazione teologica e giuridica del Concilio, che vincola sia la Santa Sede verso le Chiese orientali cattoliche, sia le Chiese orientali cattoliche stesse ad intra et ad extra.
Da parte sua, il decreto sull’Ecumenismo n. 17, che tratta specialmente delle relazioni con gli Orientali ortodossi, si riferisce ugualmente agli Orientali cattolici: «Questo sacro concilio, ringraziando Dio che molti orientali figli della Chiesa cattolica, i quali custodiscono questo patrimonio e desiderano viverlo con maggior purezza e pienezza, vivano gi? in piena comunione con i fratelli che seguono la tradizione occidentale (latina), dichiara che tutto questo patrimonio spirituale e liturgico, disciplinare e teologico, nelle diverse sue tradizioni appartiene alla piena cattolicit? e apostolicit? della Chiesa».
Le questioni disciplinari affrontate dal decreto Orientalium Ecclesiarum si riferiscono alla nozione del Rito, allo statuto canonico delle Chiese orientali cattoliche, alla loro relazione con la Chiesa latina, al mantenimento del loro patrimonio spirituale e alle riforme necessarie per rispondere alle condizioni attuali, all’istituzione patriarcale e sinodale – modo traditionale di governo delle Chiese orientali -, alla disciplina dei sacramenti, ai matrimoni misti, alla questione della data comune della festa di Pasqua, alla missione ecumenica delle Chiese cattoliche orientali e ai loro rapporti con le Chiese orientali ortodosse, alla comunione nei sacramenti con i fedeli ortodossi (communicatio in sacris), e infine al destino e al futuro delle Chiese cattoliche orientali in vista della piena unit? con le Chiese orientali ortodosse.
Dopo il Concilio, c’? stata una chiarificazione della nozione di Chiesa orientale e di Rito. Il Concilio parla delle Chiese particolari o riti, e sembra identificare una Chiesa orientale con un rito determinato, considerando il Rito sinonimo di una Chiesa. E’ proprio il nuovo Codice di diritto canonico orientale che ha fatto questa chiarificazione, passando da una concezione ritualista ad una concezione ecclesiale della Chiesa orientale. Una Chiesa orientale ? un’ assemblea di fedeli, cio? una realt? esistenziale, una entit? ecclesiale organicamente strutturata e congiunta da una gerarchia propria, che l’autorit? suprema della Chiesa riconosce come di diritto proprio (sui iuris).
Il Rito ? il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare che si distingue per la cultura e le circostanze storiche dei popoli e che si esprime con il modo proprio di ogni Chiesa di celebrare e vivere la fede (cf. CCEO, canoni 27 et 28). I Riti sono quelli che provengono dalle Tradizioni Alessandrina, Antioch?a, Armena, Cald?a e Costantinopolita. Il Rito cos? definito, anche se costituisce un elemento essenziale di una Chiesa orientale non ? un elemento giuridico, cio? non ? una persona giuridica. L’identit? ecclesiale e l’identit? rituale di un fedele coincidono in parte, ma si distinguono dal punto di vista giuridico: per esempio un fedele greco-cattolico ucraino e un fedele greco-cattolico romeno appartengono alla stessa Tradizione costantinopolita, ma a due Chiese sui iuris diverse ciascuna col proprio Rito come ? stato definito.

Le Chiese orientali e la Chiesa latina all’interno del Chiesa cattolica: uguali in dignit?, parit? di diritti e doveri.
L’eparchia di Lungro ? testimone che fino al Vaticano II, era in vigore il principio della praestantia ritus latini, confermato da Benedetto XIV nella cost. apost. Etsi pastoralis (26 mai 1742) e nella lettera enciclica Allatae sunt (26 giugno 1755). Questa praestantia ritus latini voleva significare la predominanza, la superiorit? della Chiesa latina rispetto alle altre Chiese orientali, cio? soltanto il rito liturgico latino garantirebbe ed esprimerebbe pienamente la cattolicit?, la vera fede cattolica.
Il Concilio Vaticano II, OE 3, ha abolito questo antico principio e ha instaurato una nuova prospettiva dichiarando che «le Chiese, sia di oriente che d’occidente (la Chiesa latina), sebbene siano in parte tra loro differenti in ragione dei cosiddetti riti, cio? per la liturgia, per la disciplina ecclesiastica e il patrimonio spirituale, tuttavia sono in egual modo affidate al pastorale governo del Romano Pontefice, il quale per volont? divina succede al beato Pietro nel primato sulla Chiesa universale. Esse quindi godono di pari dignit?, cos? che nessuna di loro prevale sulle altre per ragione del rito» (nulla earum ceteris praestet ratione ritus).
La conseguenza giuridica di questo nuovo principio consiste nella loro autonomia codiciale, nel senso che esse sono provviste e disciplinate da una propria normativa canonica, comune e particolare: «Il Concilio dichiara quindi solennemente che le chiese d’oriente come anche d’occidente hanno il diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari, poich? si raccomandano per veneranda antichit?, sono pi? corrispondenti ai costumi dei loro fedeli e pi? adatte a provvedere al bene delle loro anime» (OE 5).
In effetti, le Chiese orientali e la Chiesa latina sono regolate dalla propria legislazione canonica. Come ? stato detto, ci sono due Codici di diritto canonico in vigore, uno per la Chiesa latina e un’altro per le Chiese orientali cattoliche. Il primo canone del “Codice di diritto canonico” della Chiesa latina (CIC) dichiara che “i canoni del presente Codice riguardano soltanto la Chiesa latina”. Ugualmente, il primo canone del “Codice dei canoni delle Chiese orientali” (CCEO) stabilisce che i canoni del presente Codice riguardano tutte e sole le Chiese cattoliche orientali…”.
La duplice codificazione stessa nell’unica Chiesa cattolica ha un fondamentale significato ecclesiologico; prima di tutto ha per scopo di dichiarare, una volta per tutte, che la Chiesa latina non ?, nel Cattolicesimo, sinonimo di Chiesa universale, e che le leggi della Chiesa latina non sono leggi della Chiesa universale. Le leggi del Codice latino non obbligano gli Orientali; parimenti le leggi del Codice orientale non obbligano i Latini, a meno che la Chiesa Latina non sia espressamente in esso menzionata. Il diritto canonico ? una delle principali e formali espressioni di questa “diversit? nell’ unit?”, che ? una nota caratteristica della Chiesa cattolica, voluta dal Vaticano II.
Per l’attivit? missionaria, cio? per l’evangelizzazione dei popoli non-cristiani, il Concilio afferma che le Chiese orientali “godono degli stessi diritti e che sono tenute alle stesse obbligazioni, ugualmente per quel che riguarda il dovere di predicare il Vangelo a tutto il mondo (v. Mc 16,15) sotto la guida del romano Pontefice” (OE 3).
Questo principio non ? ancora oggi osservato dappertutto, soprattutto nei paesi dell’India e del Golfo Arabo, dove, sebbene siano istallate delle comunit? cattoliche orientali in emigrazione, l’attivit? missionaria ? esercitata quasi esclusivamente dalla Chiesa Latina.

L’identit? ecclesiale e rituale che distingue gli Orientali dappertutto nel mondo
Il Concilio esorta «che tutti gli Orientali sappiano con ogni certezza che possono e devono conservare sempre i loro riti liturgici legittimi e la loro disciplina, e che non dovrebbero essere apportati dei cambiamenti se non soltanto per motivi del loro progresso proprio e organico» (OE 6). In effetti, il patrimonio liturgico nelle Chiese orientali cattoliche ? fonte di identit?. La raccomandazione era ben giustificata, poich? nel corso dei tempi passati numerose Chiese orientali hanno subito influssi diversi, introducendo delle modifiche liturgiche seguendo le pratiche latine, senza criterio o per pura imitazione e facilitazione, su pretesto di esigenza pastorali.
Senza dubbio la custodia fedele dei riti deve accordarsi pienamente con il fine supremo di tutte le leggi della Chiesa, la quale consiste interamente nell’economia della salvezza delle anime. Il Rito ha senso solo se aiuta i fedeli a celebrare e vivere la loro fede. Se occorre, bisogna instaurare delle riforme liturgiche nuove, ma queste non devono apparire come un corpo estraneo arbitrariamente introdotte nell’organismo ecclesiastico, ma devono tener conto dell’origine e della storia delle tradizioni liturgiche di ciascuna Chiesa, come pure delle disposizioni del Concilio Vaticano II. Vale a dire che il progresso organico risponde alle esigenze dell’economia della salvezza delle anime nella fecondit? di vita delle Chiese orientali e nello stesso tempo si rivela coerente e in accordo con la santa tradizione di ogni Chiesa orientale.
Il Concilio esorta dunque gli Orientali stessi di acquisire una conoscenza sempre migliore e una pratica pi? perfetta del proprio rito, e aggiunge che «se si sono indebitamente venuti meno a causa delle circostanze di tempo o di persone, procurino di ritornare alle avite loro tradizioni» (OE 6). Gli Orientali al Concilio Vaticano II hanno spesso parlato di “latinizzazione”, sub?ta nel corso dei secoli, accusando Roma, ma oggi, a distanza di cinquanta anni dal Concilio, non abbiamo pi? delle scuse, e dobbiamo ritornate alle nostre tradizioni, adattate naturalmente e doverosamente alle condizioni attuali. L’allontanamento dalle nostre tradizioni, ci allontana ancora di pi? dai nostri fratelli orientali ortodossi con i quali condividiamo lo stesso patrimonio. E’ vero che le Chiese ortodosse difficilmente operano delle riforme liturgiche; ci? non deve essere una ragione per cui noi dobbiamo conservare tutto ci? che risulta caduco e superfluo o poco adatto alla necessit? dei tempi.
La Congregazione per le Chiese Orientali ha publicato il 6 gennaio 1996 un? importante Istruzione «Per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali» per condurre le nostre Chiese a realizzare il loro progresso organico nell’ambito liturgico. Bisogna pertanto ammettere che non tutte le Chiese orientali cattoliche abbiano dato la dovuta attenzione a questo documento.
In pi?, il Concilio, OE 6, si rivolge pure «a quelli che per ragioni o dell’incarico o del ministero apostolico hanno frequente relazione con le Chiese orientali o con i loro fedeli, secondo l’importanza della carica che occupano siano accuratamente istruiti nella conoscenza e nella pratica dei riti, della disciplina, della dottrina, della storia e del carattere degli orientali». Questa raccomandazione – sotto forma pure di obbligazione canonica – riguarda soprattutto i vescovi, i parroci latini e le istituzioni latine, le quali sono spesso in rapporto con i fedeli orientali nella Diaspora, senza pastori propri.
Una norma ancora pi? esplicita, il can. 41 CCEO, basata sul decreto Orientalium Ecclesiarum, n.6 citato, rivolgendosi espressamente anche ai fedeli della Chiesa latina, riguarda soprattutto i parroci, i quali a causa del loro ufficio, del loro ministero o della loro carica hanno frequenti relazioni con i fedeli di un’altra Chiesa orientale. Il vescovo diocesano latino deve assicurarsi che soprattutto i parroci che hanno in carica dei fedeli orientali conoscano almeno sommariamente la disciplina sacramentale del loro rito e la rispettino, e garantir? che nessuno si senta limitato nella sua libert? per delle questioni di lingua o di rito.
In pi?, agli Istituti religiosi e alle associazioni di rito latino che operano nei paesi dell’Oriente oppure con dei fedeli orientali, il Concilio raccomanda vivamente, per un apostolato pi? efficace, di creare delle case, o anche delle provincie di rito orientale, quanto pi? possibile (OE 6). In effetti questo movimento ? stato praticato gi? al tempo di Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, e continua ancora, sostenuto dal Papa Benedetto XVI e dalla Congregazione per le Chiese Orientali. Il Codice orientale lo conferma (can. 432).

La disciplina orientale dei sacramenti di iniziazione cristiana (OE 12-14)
Nel Concilio i Padri orientali hanno attirato l’attenzione dei Padri latini sulla diversa disciplina orientale riguardante i sacramenti di iniziazione cristiana. In questa materia, il decreto OE 12, richiede anzitutto agli stessi Orientali cattolici di ristabilire l’antica disciplina dei sacramenti: «Il santo concilio ecumenico conferma e loda e, se occorra, desidera che venga ristabilita l’antica disciplina dei sacramenti vigente presso le Chiese orientali, e cos? pure la prassi che si riferisce alla loro celebrazione e amministrazione».
In particolare, «la disciplina circa il ministro della sacra cresima, vigente fino dai pi? antichi tempi presso gli orientali, sia pienamente ristabilita. Perci? i presbiteri hanno il potere di conferire questo sacramento col crisma benedetto dal patriarca o dal vescovo» (OE 13).
Di conseguenza, «tutti i presbiteri orientali possono validamente conferire questo sacramento, sia insieme col battesimo sia separatamente, a tutti i fedeli di qualsiasi rito, non escluso il latino, osservando, per la liceit?, le prescrizioni del diritto sia comune sia particolare. Anche i presbiteri di rito latino, secondo le facolt? che godono circa l’amministrazione di questo sacramento, hanno il potere di amministrarlo anche ai fedeli delle Chiese, orientali, senza pregiudizio al rito, osservando per la liceit? le prescrizioni del diritto sia comune che particolare» (OE 14).
Queste norme sono state codificate nel Codice orientale, canoni 694, 695, 696. Essi riguardano anche i vescovi e i parroci latini che hanno nel loro territorio dei fedeli orientali, privi di propri pastori.

Il problema pastorale degli Orientali cattolici in emigrazione
Gi? prima del Vaticano II, il problema pastorale degli Orientali in Diaspora era presente ed urgente. Molti gli interventi in merito dei Padri orientali in Aula conciliare. Da allora in poi ci troviamo di fronte a una massiva emigrazione degli orientali cattolici in Occidente (Europa, Stati Uniti, America latina, Canada, Australia). In effetti, oltre i milioni di persone che sin dal secolo scorso sono state obbligate ad abandonare le loro terre e cercare altrove nel mondo il loro destino, provenienti dai paesi del Medio Oriente (Libano, Siria, Iraq, Iran, Egitto, Etiopia, Terra Santa, ecc.), e dall’Europa centrale e dell’Est, il fenomeno migratorio ? diventato pi? intenso oggi in seguito alla caduta del comunismo in Europa centrale e dell’Est e dalla vera persecuzione dei cristiani in Medio Oriente. Gli emigrati cattolici, che riescono finalmente, in mezzo a tante avventure, ad arrivare in un paese straniero, si rivolgono prima di tutto alla Chiesa locale, al vescovo, ai parroci e alle istituzioni cattoliche per avere un aiuto.
Anche nel mio paese, la Grecia, che attualmente attraversa una crisi economica molto grave, dovuta alla crisi profonda dei valori morali e della giustizia sociale nella gestione dei beni publici, un milione quasi di emigrati e rifugiati politici cercano un destino migliore, tra i quali 300.000 circa sono Cattolici, latini e orientali. Circa 7.000 fideli orientali, iracheni di rito caldeo, ucraini ed altri dal Sud-Est Europeo di rito bizantino sono affidati dalla Santa Sede alla cura pastorale dell’Esarca Apostolico Greco-Cattolico e dei suoi sacerdoti, con l’aiuto dei sacerdoti venuti dai loro rispettivi paesi.
Il Santo Padre, Papa Benedetto XVI, nella sua Esortazione Apostolica post sinodale «Ecclesia in Medio Oriente », di recente firmata ? Beyrouth, nel Libano (14/9/2012), scrive:
«I Pastori delle Chiese orientali cattoliche sui iuris costatano, con preoccupazione e dolore, che il numero dei loro fedeli si riduce sui territori tradizionalmente patriarcali e, da qualche tempo, si vedono obbligati a sviluppare una pastorale dell’emigrazione. Sono certo che essi fanno il possibile per esortare i propri fedeli alla speranza, a restare nel loro paese e a non vendere i loro beni. Li incoraggio a continuare a circondare di affetto i loro sacerdoti e i loro fedeli della diaspora, invitandoli a restare in contatto stretto con le loro famiglie e le loro Chiese, e soprattutto a custodire con fedelt? la loro fede in Dio grazie alla loro identit? religiosa, costruita su venerabili tradizioni spirituali. ? conservando questa appartenenza a Dio e alle loro rispettive Chiese, e coltivando un amore profondo per i loro fratelli e sorelle latini, che essi apporteranno all’insieme della Chiesa cattolica un grande beneficio. D’altra parte, esorto i Pastori delle circoscrizioni ecclesiastiche che accolgono i cattolici orientali a riceverli con carit? e stima, come fratelli, a favorire i legami di comunione tra gli emigrati e le loro Chiese di provenienza, a dare la possibilit? di celebrare secondo le proprie tradizioni ed a esercitare attivit? pastorali e parrocchiali, laddove ? possibile» (n. 32).
L’emigrazione massiccia dei fedeli Orientali cattolici in Occidente, in territori di circoscrizioni ecclesiastche latine, pone il problema urgente della loro cura pastorale e del loro statuto giuridico. Il Vaticano II e in seguito, il Legislatore, nella sua sollecitudine per tutta la Chiesa cattolica, ha promulgato delle norme disciplinari appropriate per affrontare la complessit? di questo problema.
Il Consiglio Pontificio per la Pastorale dei Migranti e delle Persone in spostamento ha publicato il 3 maggio 2004 l’Istruzione Erga migrantes caritas Christi (La carit? di Cristo verso i migranti), che ha dedicato quatro paragrafi (52-55) ai migranti cattolici appartenenti a diverse Chiese orientali sui iuris.
I migranti cattolici orientali, sempre pi? numerosi oggi, meritano un’attenzione pastorale particolare. Per quel che li riguarda, notiamo prima di tutto il loro obbligo morale e giuridico di osservare dapertutto – nella misura del possibile – il proprio rito, considerato come la loro identit?. Come ? gi? stato notato, «si deve conservare religiosamente e promuovere i riti delle Chiese orientali quale patrimonio della Chiesa di Cristo tutta intera, nel quale risplende la tradizione che deriva dagli Apostoli attraverso i Padri e che afferma la divina unit? della fede cattolica nella variet?».
I pastori locali latini, vescovi e sacerdoti, hanno l’obbligo di vegliare con la pi? grande sollecitudine alla fedele salvaguardia e all’esatta osservanza del rito proprio dei loro fedeli orientali emigrati, soggetti alla loro giurisdizione.
I migranti orientali, privi di una propria gerarchia, sono affidati a un Ordinario latino in base al domicilio o quasi – domicilio. Il can. 916, §5 CCEO prevede questo caso e stabilisce la seguente norma:
«Nei luoghi dove non ? eretto nemmeno un esarcato per i fedeli cristiani di qualche Chiesa sui iuris, si deve ritenere come Gerarca proprio degli stessi fedeli cristiani il Gerarca di un’altra Chiesa sui iuris, anche della Chiesa latina…; se poi sono parecchi, si deve ritenere come proprio Gerarca colui che ha designato la Sede Apostolica o, se si tratta di fedeli cristiani di qualche Chiesa patriarcale, il Patriarca con l’assenso della Sede Apostolica». Ci? vale anche per i fedeli di qualche Chiesa Arcivescovile Maggiore.
Essere sotto la giurisdizione dell’Ordinario latino non vuol dire che questi fedeli cambiano rito e passano alla Chiesa latina. Il Concilio e il Codice orientale (can. 38) stabiliscono il principio secondo il quale «i fedeli delle Chiese orientali, anche se affidati (commissi) alla cura del Gerarca o del parroco di un’altra Chiesa sui iuris (inclusa la Chiesa latina), rimangono tuttavia ascritti alla propria Chiesa sui iuris». Cambiare Rito non deve assolutamente essere giustificato da un motivo sentimentale, da interesse culturale, da ammirazione o ad altro, ma per un bene spirituale. E’ per questo che il Concilio (OE 4) e il Codice, can. 32, proibiscono il passaggio ad un altro Rito senza il consenso della Santa Sede.

Diritto di vigilanza dei Patriarchi e degli Arcivescovi Maggiore sui propri fedeli ovunque nel mondo
Il Concilio Vaticano II ha confermato le diverse forme di costituzione gerarchica delle Chiese orientali, tra le quali si distinguono in maniera insigne le Chiese Patriarcali, «dove i Patriarchi e i Sinodi partecipano, per diritto canonico alla suprema autorit? della Chiesa», come dichiara la Cost. apos. Sacri canones (1990). L’ istituzione patriarcale non ? di diritto divino, ma di diritto ecclesiastico, cio? riconosciuto gi? dai primi concili ecumenici.
Tuttavia la forma di questa partecipazione all’autorit? suprema della Chiesa non ? precisata. Anche il nuovo codice non lo precisa, ma si limita a dire nel can. 58 che «i Patriarchi delle Chiese orientali hanno la precedenza in tutto il mondo su tutti i vescovi di qualsiasi grado, salve restando le norme speciali sulla precedenza stabilite dal Romano Pontefice». In effetti, nell’ordine stabilito dal Protocollo della Curia romana, i Cardinali hanno la precedenza sui Patriarchi orientali cattolici. Sarebbe auspicabile rivedere le regole speciali della Santa Sede che riguardano la priorit? dei Patriarchi. Da notare a questo proposito il posto di onore riservato ai Patriarchi Ortodossi in visita in Vaticano, messi accanto al Santo Padre.
Il decreto OE 9, dedica numerosi paragrafi all’istituzione patriarcale e ai Patriarchi orientali, descrivendo il concetto, l’origine, la natura della loro funzione con il loro sinodo e il principio della territorialit? dell’esercizio del loro potere. Specialmente l’elaborazione di questi paragrafi ? stata oggetto di un vivo dibattito nell’Aula conciliare. Finalmente si ? giunti alla seguente formulazione: «Secondo un’antichissima tradizione della Chiesa ? riservato uno speciale onore ai patriarchi delle chiese orientali, dato che ognuno presiede al suo patriarcato come padre e capo (pater et caput). Perci? questo santo concilio stabilisce che siano ripristinati i loro diritti e i loro privilegi, secondo le antiche tradizioni di ogni Chiesa e i decreti dei concili ecumenici. Questi diritti e privilegi sono quelli che vigevano al tempo dell’unione dell’oriente e dell’occidente, anche se devono essere alquanto adattati alle odierne condizioni. I Patriarchi coi loro sinodi costituiscono la superiore istanza per qualsiasi pratica del patriarcato, non escluso il diritto di costituire nuove eparchie e di nominare vescovi del loro rito entro i confini del territorio patriarcale, salvo restando l’inalienabile diritto del Romano Pontefice di intervenire nei singoli casi». Da notare che la clausola «in singulis casibus interveniendi» ? stata preferita da quella «in omnibus casibus interveniendi».
Il decreto OE 10, dopo aver affermato che «Quanto si ? detto dei patriarchi vale anche, a norma del diritto, degli arcivescovi maggiori, che presiedono a tutta una Chiesa particolare o rito», auspica la fondazione di nuovi Patriarcati (n. 11): «Siccome l’istituzione patriarcale nelle Chiese orientali ? una forma tradizionale di governo, il santo ed ecumenico concilio desidera che, dove sia necessario, si erigano nuovi patriarcati, la cui fondazione ? riservata al concilio ecumenico o al Romano Pontefice». Da notare che non tutti i Padri conciliari erano di questo parere sostenendo la tesi che bisognava restare fedeli a quelle sedi patriarcali riconosciute dai primi concili ecumenici; mentre altri sostenevano la possibilit? di erigere nuovi patriarcati, proprio perch? si tratta in Oriente di una tradizionale forma di governo.
Un altro problema lungamente discusso nel Concilio era la potest? del Patriarca. Il Concilio stabilisce che essa si esercita dunque validamente nei limiti del territorio del patriarcato; ci? che venne poi codificato dal CCEO, can. 78,§2, il quale conferma questo principio di territorialit?: «La potest? del Patriarca pu? essere esercitata validamente soltanto entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, a meno che non consti diversamente dalla natura della cosa, oppure dal diritto comune o particolare approvato dal Romano Pontefice».
Tuttavia bisogna riconoscere che il fenomeno dell’emigrazione e dell’istallazione fuori dal territorio tradizionale delle comunit? ecclesiali orientali organicamente costituite, congiunte dalla propria gerarchia, a norma del diritto, vengono in pratica ad ampliare progressivamente la nozione di territorio canonico e della territortialit? della giurisdizione episcopale, di modo che si possa avanzare l’ipotesi che il territorio ecclesiastico esiste in un luogo dove delle comunit? ecclesiali si siano pienamente costituite. Forse de iure condendo e nella prospettiva di un diritto particolare ben circonstanziato approvato dal Romano Pontefice, questo problema potrebbe trovare una soluzione. La questione ? legata ? quella pi? generale dell’applicazione della legge, cio? del principio locus regit actum e del principio de ius personarum.
Nel suo intervento al Sinodo Speciale per il Medio Oriente nel 2010 il cardinale Andr? Vingt-Trois aveva segnalato a questo proposito che la “mobilit? della societ? attuale cambia la comprensione della nozione di territorio” (Cf. Documentation catholique, n° 2456, 21/11/2010, p. 999). Cio? il principio geografico e il principio di una determinata comunit? ecclesiale di fedeli di diverso rito istallati in un luogo geografico cambiano la comprensione tradizionale del territorio ecclesiastico.
Tra le Proposte dei Padri di quel Sinodo Speciale, appariva anche quella della giurisdizione dei Patriarchi: «Fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale, per mantenere la comunione dei fedeli orientali con le loro Chiese patriarcali, e assicurare a loro un adatto servizio pastorale, ? auspicabile che la questione della estensione della giurisdizione dei Patriarchi orientali alle persone delle loro Chiese ovunque nel mondo sia ristudiata in vista di adatti provvedimenti» (Proposta n° 18  : Documentation catholique, p. 1004).
La cura pastorale e la tutela dell’identit? religiosa e rituale dei cattolici orientali sparsi oggi in tutto il mondo evoca, tra l’altro, la questione delle loro relazioni con i loro Patriarchi e con la propria gerarchia di origine, quella della presenza dei sacerdoti del loro proprio rito, come pure di adatte strutture pastorali: costituzione di proprie eparchie o esarcati oppure, eventualmente, di un Ordinariato. Per quel che riguarda la loro integrazione, si richiede la collaborazione tra le diverse comunit? orientali nella Diaspora, tra le comunit? orientali e latine, e la partecipazione alle strutture diocesane, come ad esempio alle assemblee e ai consigli pastorali, parrochiali e diocesani.
Il CCEO, can.148, riconosce al Patriarca lo ius vigilantiae (diritto di vigilanza) sui fedeli della sua Chiesa patriarcale in tutto il mondo:
«§1. E’ diritto e dovere del Patriarca, nei riguardi dei fedeli cristiani che dimorano fuori dei confini del territorio della Chiesa da lui presieduta, di cercare le opportune informazioni, anche per mezzo di un Visitatore, inviato da parte sua con l’assenso della Sede Apostolica.
«§3. Finita la visita, il Visitatore invia una relazione al Patriarca, il quale dopo aver discusso della cosa nel Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale pu? proporre alla Sede Apostolica i mezzi opportuni affinch? si possa provvedere dappertutto alla tutela e all’incremento del bene spirituale dei fedeli cristiani della Chiesa a cui presiede, anche attraverso la costituzione di parrocchie e di esarcati o eparchie proprie».
Riteniamo sommessamente che la petizione dai Patriarchi cattolici orientali riguardante la questione dell’estensione della loro giurisdizione sui fedeli della propria Chiesa patriarcale in tutto il mondo dovrebbe essere ulteriormente studiata. Tuttavia bisogna ammettere che in effeti, anche nel loro proprio territorio i diritti e gli obblighi dei Patriarchi sono ben determinati (can. 78-101), rimanendo salvi i dirtitti e le obbligazioni di ogni vescovo eparchiale nella sua Chiesa locale. In pi?, il Patriarca nella sua propria eparchia ha gli stessi diritti e gli stessi obblighi che il Vescovo eparchiale (can. 101). Cos?, il Patriarca non pu? ingerire negli affari di ogni eparchia entro e fuori dei confini del territorio patriarcale, che nei casi precisi prescritti dal diritto. I Patriarchi e i loro sinodi non hanno il diritto di istituire delle eparchie o delle parrocchie o di nominare dei Vescovi e dei parrocci del loro rito fuori dei limiti del territorio della Chiesa patriarcale. Perci?, riteniamo che l’espressione “estensione della giurisdizione dei Patriarchi orientali alle persone della loro Chiesa in tutto il mondo” dovrebbe piuttosto essere formulata come “estensione della vigilanza dei Patriarchi orientali alle persone delle loro Chiese in tutto il mondo da precisare ulteriormente”.
In pi?, secondo il can. 150, «i Vescovi costituiti fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale hanno tutti i diritti e i doveri sinodali di tutti gli altri Vescovi della stessa Chiesa […] Le leggi emanate dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e promulgate dal Patriarca, se sono leggi liturgiche hanno vigore dappertutto; se invece sono leggi disciplinari, o se si tratta di tutte le altre decisioni del Sinodo, hanno valore giuridico entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale».
Tuttavia questo stesso canone auspica che «i Vescovi eparchiali costituiti fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale vogliano attribuire valore giuridico nelle proprie eparchie alle leggi disciplinari e a tutte le altre decisioni sinodali che non eccedono la loro competenza; se per? queste leggi o decisioni sono state approvate dalla Sede Apostolica, hanno valore giuridico dappertutto».
In virt? del suo ius vigilantiae, il Patriarca come padre e capo della sua Chiesa patriarcale diventa il custode e il garante dell’unit? e della cattolicit? della sua Chiesa patriarcale dentro e fuori del proprio territorio; il Patriarca nella sua sollecitudine verso le persone della sua Chiesa in tutto il mondo diventa il promotore presso la Santa Sede e le Conferenze episcopali latine locali in vista della presa di misure pastorali adatte. Il Patriarca diventa il vincolo di comunione dei suoi fedeli in Diaspora con la loro Chiesa-madre e con la Chiesa universale. Segno spirituale di questo ? l’obbligo di tutti i Vescovi e degli altri chierici di commemorare nella Divina Liturgia e nelle Celebrazioni liturgiche, dopo il Romano Pontefice, il Patriarca (can. 91).
Il Papa Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica post-sinodale «Ecclesia in Medio Oriente» non si riferisce alla questione dell’estensione della giurisdizione dei Patriarchi fuori dei confini del territorio della Chiesa patriarcale, ma sottolinea che:
«Padri e Capi di Chiese sui iuris, i Patriarchi sono i segni visibili referenziali e i custodi vigilanti della comunione. Per la loro propria identit? e missione, sono uomini di comunione, vigilanti sul gregge di Dio (cfr 1 Pt 5, 1-4), servitori dell’unit? ecclesiale. Essi esercitano un ministero che opera per mezzo della carit? vissuta realmente a tutti i livelli: tra gli stessi Patriarchi, tra ciascun Patriarca e i Vescovi, i presbiteri, le persone consacrate e i fedeli laici sotto la propria giurisdizione.
«I Patriarchi, la cui unione indefettibile con il Vescovo di Roma ? radicata nell’ecclesiastica communio che essi hanno chiesto al Sommo Pontefice e ricevuto all’indomani della loro elezione canonica, rendono tangibili con questo vincolo particolare l’universalit? e l’unit? della Chiesa. La loro sollecitudine si estende ad ogni discepolo di Ges? Cristo che vive nel territorio patriarcale. In segno di comunione per la testimonianza, sapranno rinforzare l’unione e la solidariet? in seno al Consiglio dei Patriarchi cattolici d’Oriente e ai vari sinodi patriarcali, privilegiando sempre la concertazione su questioni di grande importanza per la Chiesa in vista di un’azione collegiale e unitaria. Per la credibilit? della sua testimonianza, il Patriarca cercher? la giustizia, la piet?, la fede, la carit?, la pazienza e la mitezza (cfr 1 Tm 6, 11), avendo a cuore uno stile di vita sobrio a immagine di Cristo che si ? spogliato per arricchirci per mezzo della sua povert? (cfr 2 Cor 8, 9). Provveder? anche a promuovere tra le circoscrizioni ecclesiastiche una reale solidariet? in una sana gestione del personale e dei beni ecclesiastici. ? ci? che fa parte del suo dovere. A imitazione di Ges? che percorreva tutte le citt? e i villaggi nel compimento della sua missione (cfr Mt 9, 35), il Patriarca effettuer? con zelo la visita pastorale nelle sue circoscrizioni ecclesiastiche. Lo far? non soltanto per esercitare il suo diritto e il suo dovere di vigilanza, ma anche per testimoniare concretamente la sua carit? fraterna e paterna verso i Vescovi, i sacerdoti e i fedeli laici, soprattutto verso le persone che sono povere, malate ed emarginate, come pure verso quelle che soffrono spiritualmente» (nn. 39 et 40). La Sede Apostolica, tramite la Congregazione per le Chiese Orientali, prende le misure opportune affinch? sia previsto in tutto il mondo la tutela, la protezione e l’accrescimento del bene spirituale dei fedeli cristiani fuori dal proprio territorio. La Costituzione apostolica Pastor Bonus descrive le competenze di questo dicastero romano. L’art. 59 prescrive che per la diaspora orientale, la Congregazione per le Chiese orientali segue parimenti con premurosa diligenza le comunit? di fedeli orientali che si trovano nelle circoscrizioni territoriali della Chiesa latina, e provvede alle loro necessit? spirituali per mezzo di visitatori, anzi, laddove il numero dei fedeli e le circostanze lo richiedano, possibilmente anche mediante una propria gerarchia, dopo aver consultato la Congregazione competente per la costituzione di Chiese particolari nel medesimo territorio. Perci?, il diritto di vigilanza dei Patriarchi viene a sostenere questa sollecitudine pastorale della Sede Aostolica per i fedeli orientali che si trovano nelle circoscrizioni territoriali della Chiesa latina. Infatti, la Santa Sede, dal Vaticano II, a creato numerose circoscrizioni orientali (eparchie o esarcati) in occidente.

Strutture canoniche per la cura pastorale dei cattolici orientali in emigrazione
La Chiesa per incorragiare gli immigrati orientali a conservare la loro specifica tradizione, di fronte a dei gruppi particolarmente numerosi e omogenei, veglia particolarmente a che dei sacerdoti di lingua, di cultura e di rito degli immigrati apportino un’assistenza religiosa strutturata, scegliendo la forma giuridica la pi? conforme tra quelle che sono previste dal diritto.
Il decreto conciliare sull’Ufficio pastorale dei Vescovi Christus Dominus n. 23, n. 3, prevede che: «…dove si trovano fedeli di diverso rito, il vescovo deve provvedere alle loro necessit? spirituali, sia per mezzo di sacerdoti o parrocchie dello stesso rito; sia per mezzo di un vicario episcopale, munito delle necessarie facolt? e, se opportuno, insignito anche del carattere episcopale; sia da se stesso esercitando l’incarico di ordinario di diversi riti. Ma se tutto questo, secondo il giudizio della Sede apostolica, per ragioni particolari non si pu? fare, si costituisca una gerarchia propria per ciascun rito».
Sulla base delle decisioni conciliari, soprattutto Lumen gentium, Orientalium Ecclesiarun, Unitatatis redintegratio e Christus Dominus, la legislazione canonica in vigore, orientale e latina, contenuta nei due Codici (CCEO e CIC), prescrive delle norme precise riguardanti una pastorale appropriata per i migranti cattolci in generale, dettata dalla diversit? di lingua, di origine, di cultura, di etn?a o di rito.
In conformit? dunque al decreto conciliare citato Christus Dominus, il can. 192, §1 CCEO, come pure il can. 383, §§ 1-2 CIC ricordano che, nell’esercizio della sua carica pastorale, il vescovo eparchiale (diocesano) dimostrer? la sua sollecitudine verso tutti i fedeli cristiani affidati alle sue cure, qualsiasi sia la loro et?, la loro condizione, la nazionalit? o la loro Chiesa sui iuris (il loro Rito), sia che abitino sul territorio dell’eparchia (diocesi) sia che si trovino per un certo tempo? applicher? la sua premura apostolica ugualmente a quelli che non possono beneficiare abbastanza dell’attivit? pastorale ordinaria a causa della loro condizione di vita.
Il canone 280, §1 del CCEO stabilisce che: «Di regola la parrocchia sia territoriale, tale cio? da abbracciare tutti i fedeli cristiani di un determinato territorio; se per?, a giudizio del Vescovo eparchiale, dopo aver consultato il consiglio presbiterale, risulti opportuno, vengano erette parrocchie personali, determinate in ragione della nazione, della lingua, dell’ascrizione dei fedeli cristiani a un’altra Chiesa sui iuris , anzi anche per altra ragione precisa».
Anche il can.518 CIC, dopo aver affermato la regola generale, secondo la quale la parrocchia ? territoriale, cio? comprende tutti i fedeli di un dato territorio, aggiunge che «dove per? risulti opportuno, vengano costituite parrocchie personali, sulla base del rito, della lingua, della nazionalit? dei fedeli appartenenti ad un territorio, oppure anche sulla base di altre precise motivazioni». Si tratta di parrocchie comunitarie, in virt? del rito, costituite in un territorio determinato di una diocesi latina.
Il CCEO, can. 193, §3, precisa che «i Vescovi eparchiali che costituiscono questo tipo di presbiteri, di parroci o Sincelli per la cura dei fedeli cristiani delle Chiese patriarcali, prendano contatto con i relativi Patriarchi e, se sono consenzienti, agiscano di propria autorit? informandone al pi? presto la Sede Apostolica; se per? i Patriarchi per qualunque ragione dissentono, la cosa venga deferita alla Sede Apostolica».
Nel Codice latino una tale disposizione per i vescovi diocesani latini manca, ma viene menzionata nell’Istruzione del Consiglio Pontificale per i Migranti. Come ? stato gi? detto, il Patriarca non pu? costituire delle parrocchie e di nominare dei parroci nella Diaspora, ma il suo consenso ? richiesto. La Santa Sede, in quanto arbitro supremo delle relazioni interecclesiali, provveder? a risolvere un eventuale disaccordo tra l’Ordinario Latino e il Patriarca. Comunque nessun Vescovo ha diritto di inviare un sacerdote in una altra eparchia in emigrazione e costituirlo parroco o responsabile dei fedeli del proprio rito, emigrati in quel luogo.
Quanto agli “Ordinariati orientali”, di cui nel decreto conciliare CD, esistenti ancora in molti paesi (Francia, Austria, Polonia, Argentina…), questi non sono previsti dai due Codici in vigore, ma questa istituzione ? tuttora conveniente sia per i territori dove risiedono dei gruppi minori di fedeli di differenti riti per i quali non ? possibile costituire delle circoscrizioni ecclesiastiche distinte proprie, sia per delle ragioni e circostanze particolari di ordine civile e sociale. In questi casi, la duplice giurisdizione cumulativa tra Ordinari interessati ? generalmente regolata da una convenzione.

Costituzione di eparchie (diocesi) orientali fuori dai limiti del territorio patriarcale.
Il Decreto OE 7 prescrive che «dovunque si costituisce un gerarca di qualche rito fuori dei confini del territorio patriarcale, a norma del diritto esso rimane aggregato alla gerarchia del patriarcato dello stesso rito». La volont? del Concilio ? esplicita, cio? la costituzione di circoscrizioni orientali l? dove questo ? possibile e necessario per rispondere ai bisogni spirituali e pastorali dei fedeli orientali in tutto il mondo. Come gi? detto, la Congregazione per le Chiese Orientali segue pure con attenzione le comunit? dei fedeli orientali, che si trovano nelle circoscrizioni territoriali della Chiesa latina e provvede ai loro bisogni spirituali per mezzo anche di una gerarchia propria, dopo consultazione della Congregazione competente per la costituzione di Chiese particolari sul territorio interessato. ? ci? che la Santa Sede continua a fare dopo il Vaticano II.
Il CIC, can. 372, conferma questa norma: «§ 1. Di regola la porzione del popolo di Dio, che costituisce una diocesi o un’altra Chiesa particolare, sia circoscritta entro un determinato territorio, in modo da comprendere tutti i fedeli che abitano in quel territorio. § 2. Tuttavia, dove a giudizio della suprema autorit? della Chiesa, sentite le Conferenze Episcopali interessate, l’utilit? lo suggerisca, nello stesso territorio possono essere erette Chiese particolari distinte sulla base del rito dei fedeli o per altri simili motivi».
Compete al diritto di vigilanza dei Patriarchi di sostenere questo processo.

I preti sposati al servizio dei loro fedeli nella Diaspora
Il Concilio Vaticano II nel decreto “Presbyterorum Ordinis”, n. 16, tratta del celibato dei sacerdoti come pure dello statuto dei sacerdoti orientali uniti in matrimonio:
«La perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli, raccomandata da Cristo Signore, nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni volentieri abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, ? sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale. E’ infatti segno e allo stesso tempo stimolo della carit? pastorale, e fonte speciale di fecondit? spirituale nel mondo. Certamente essa non ? richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente dalla prassi della Chiesa primitiva e dalla tradizione delle Chiese orientali, nelle quali, oltre a coloro che assieme a tutti i vescovi scelgono con l’aiuto della grazia di osservare il celibato, vi sono anche degli eccellenti presbiteri coniugati: ma questo sacrosanto sinodo, nel raccomandare il celibato ecclesiastico, non intende tuttavia mutare quella disciplina diversa che ? legittimamente in vigore nelle Chiese orientali, anzi esorta amorevolmente tutti coloro che hanno ricevuto il presbiterato quando erano allo stato matrimoniale, a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosit? la propria vita per il gregge loro affidato».
Il Codice dei canoni delle Chiese orientali ha codificato questa dottrina del Concilio in tre canoni:
Can. 373 Il celibato dei chierici, scelto per il regno dei cieli e tanto conveniente per il sacerdozio, dev’essere tenuto ovunque in grandissima stima, secondo la tradizione della Chiesa universale; cos? pure dev’essere tenuto in onore lo stato dei chierici uniti in matrimonio, sancito attraverso i secoli dalla prassi della Chiesa primitiva e delle Chiese orientali.
Can. 374 I chierici celibi e coniugati devono risplendere per il decoro della castit?; spetta al diritto particolare stabilire i mezzi opportuni da usare per raggiungere questo fine.
Can. 375 I chierici coniugati offrano un luminoso esempio agli altri fedeli cristiani nel condurre la vita familiare e nell’educazione dei figli.
Per l’applicazione concreta per? di queste norme, il can. 758 §3 prescrive che: «A riguardo dell’ammissione agli ordini sacri dei coniugati si osservi il diritto particolare della propria Chiesa sui iuris o le norme speciali stabilite dalla Sede Apostolica».
Alcune Chiese orientali, come quella del Malabar, in India, con il loro diritto particolare hanno optato per il celibato obbligatorio dei chierici. Inoltre le norme speciali della Santa Sede, datate sin dal 1930, secondo le quali fuori del proprio territorio non sono ammessi dei sacerdoti sposati non sono state finora abrogate. Comunque sembra che tacitamente queste norme in certi territori latini non si applicano.
Un problema dunque, ancora non risolto, concerne la possibilit? per il vescovo latino di accogliere nella sua diocesi dei sacerdoti orientali sposati per il servizio dei fedeli orientali, i quali a ragione del loro domicilio o quasi domicilio, sono affidati a lui (commissi) conformemente alle norme di diritto gi? citate.
La Proposizione no 23 del Sinodo Speciale per il Medio Oriente afferma a questo proposito: «Il celibato ecclesiastico ? stimato e apprezzato sempre e dappertutto nella Chiesa Cattolica, in Oriente come in Occidente. Tuttavia, e al fine di assicurare un servizio pastorale a favore dei nostri fedeli, sarebbe auspicabile di studiare la possibilit? di avere dei sacerdoti sposati fuori dal territorio patriarcale».
Il Papa Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica post sinodale “Ecclesia in Medio Oriente”, senza far riferimento alle suddette norme della Santa Sede, sottolinea a questo proposito:
«Il celibato sacerdotale ? un dono inestimabile di Dio alla sua Chiesa, che occorre accogliere con riconoscenza, tanto in Oriente quanto in Occidente, poich? rappresenta un segno profetico sempre attuale. Ricordiamo, inoltre, il ministero dei presbiteri sposati che sono una componente antica delle tradizioni orientali. Vorrei rivolgere il mio incoraggiamento anche a questi presbiteri che, con le loro famiglie, sono chiamati alla santit? nel fedele esercizio del loro ministero e nelle loro condizioni di vita a volte difficili. A tutti ribadisco che la bellezza della vostra vita sacerdotale susciter? senza dubbio nuove vocazioni che toccher? a voi coltivare» (n. 48).

Collaborazione pastorale per i Migranti tra la gerarchia orientale di origine e la gerarchia latina di accoglienza
Secondo le direttive del decreto Orientalium Ecclesiarum, n. 4, i due Codici consigliano per i Migranti cattolici la collaborazione pastorale tra la gerarchia orientale di origine e la gerarchia latina dell’accoglienza (CCEO, can. 361, 362 e 366; Cic, can.271 e 269):
Can. 361 Non venga negato, se non per vera necessit? della propria eparchia o della Chiesa sui iuris, a un chierico sollecito verso la Chiesa universale, specialmente in ragione dell’evangelizzazione, il passaggio o la trasmigrazione in un’altra eparchia che soffre di grave penuria di chierici, purch? egli sia preparato e adatto ad esercitare i ministeri.
Can. 362 §1. Per una giusta causa un chierico pu? essere richiamato dalla trasmigrazione dal proprio Vescovo eparchiale o essere rimandato dal Vescovo eparchiale ospitante rispettando le convenzioni stipulate e l’equit?.
Can. 366 §1. Il Vescovo eparchiale non ascriva alla sua eparchia un chierico estraneo, a meno che:
1- lo esigano le necessit? o l’utilit? dell’eparchia;
2- gli consti dell’attitudine del chierico
a esercitare i ministeri, specialmente
se il chierico ? venuto da un’altra Chiesa sui iuris ;
3- gli consti da un legittimo documento
della legittima dimissione dall’eparchia e abbia dal Vescovo eparchiale che dimette le opportune
testimonianze, se necessario anche sotto segreto, circa il curricolo
di vita e i costumi del chierico;
4- il chierico abbia dichiarato per iscritto di dedicarsi al servizio della
nuova eparchia a norma del diritto.

La missione ecumenica delle Chiese cattoliche orientali e i loro rapporti con le Chiese orientali ortodosse
? significativo che dal concilio Vaticano Il sia stato messo in luce che «la religiosa fedelt? alle antiche tradizioni orientali», assieme alla «preghiera, agli esempi di vita, alla mutua e migliore conoscenza, alla collaborazione e fraterna stima delle cose e degli animi», contribuiscono al massimo grado affinch? le Chiese orientali che sono in piena comunione con la Sede Apostolica romana «adempiano al compito di promuovere l’unit? di tutti i cristiani, specialmente orientali» (decr. Orientalium ecclesiarum, n. 24), secondo i principi del decreto «sull’Ecumenismo».
N? si deve qui dimenticare che le Chiese orientali che non sono ancora nella piena comunione con la Chiesa cattolica, sono regolate dal medesimo e fondamentalmente unico patrimonio della disciplina canonica, cio? dai «sacri canoni» dei primi secoli della Chiesa.
Per quanto riguarda poi il problema generale del movimento ecumenico, suscitato dallo Spirito Santo al fine di rendere perfetta l’unit? di tutta la Chiesa di Cristo, il Concilio Vaticano II non solo non crea il minimo ostacolo, ma ? piuttosto di grande giovamento. Infatti il Concilio tutela lo stesso diritto fondamentale della persona umana, cio? di professare la fede ciascuno nel proprio rito generalmente attinto dal seno stesso della madre, che ? la regola di ogni «ecumenismo», e non tralascia nulla perch? le Chiese orientali cattoliche, adempiendo nella tranquillit? dell’ordine le aspirazioni del concilio Vaticano Il, «fioriscano e assolvano con nuovo vigore apostolico la funzione loro affidata» (decr. Orientalium ecclesiarum, n. 1).
Il decreto OE 24, prescrive: «Alle Chiese orientali che sono in comunione con la Sede apostolica romana compete lo speciale compito di promuovere l’unit? di tutti i cristiani, specialmente orientali, secondo i principi del decreto “sull’ecumenismo” promulgato da questo santo concilio, in primo luogo con la preghiera, l’esempio della vita, la scrupolosa fedelt? alle antiche tradizioni orientali, la mutua e pi? profonda conoscenza, la collaborazione e la fraterna stima delle cose e degli animi».
I Padri orientali al Vaticano II nei loro interventi hanno potuto tracciare i principi che dovrebbero ispirare la Chiesa cattolica nella ricerca dell’unit? con le Chiese ortodosse.
Questi principi sono sviluppati nel decreto sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio) riguardanti la considerazione speciale delle Chiese orientali ortodosse, principi che si applicano in pieno anche alle Chiese orientali in comunione con la Sede Apostolica, che si potrebbe riassumere cos?:
Sotto l’aspetto storico, il decreto n.14 nota: «Le Chiese d’oriente e d’occidente hanno seguito durante non pochi secoli una propria via, unite per? dalla fraterna comunione della fede e della vita sacramentale, intervenendo per comune consenso la sede romana (sede romana moderante), qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina. E’ cosa gradita per il sacro concilio, tra le altre cose di grande importanza, richiamare alla mente di tutti […] che l’eredit? tramandata dagli apostoli ? stata accettata in forme e modi diversi e fin dai primordi stessi della chiesa, qua e l? variamente sviluppata, anche per la diversit? di mentalit? e di condizioni di vita. E tutte queste cose, oltre alle cause estranee anche per mancanza di mutua comprensione e carit?, diedero ansa alle separazioni. Perci? il santo concilio esorta tutti, ma specialmente quelli che intendono lavorare al ristabilimento della desiderata piena comunione tra le Chiese orientali e la Chiesa cattolica, affinch? tengano in debita considerazione questa speciale condizione della nascita e della crescita delle Chiese d’oriente, e la natura delle relazioni vigenti fra esse e la sede di Roma prima della separazione […] Se tutto questo sar? accuratamente osservato, contribuir? moltissimo al dialogo che si ? proposto».
Sotto l’aspetto della Tradizione liturgica e spirituale, il decreto n. 15, dichiara che «per mezzo della celebrazione dell’eucaristia del Signore in queste singole Chiese (orientali ortodosse) la Chiesa di Dio ? edificata e cresce e per mezzo della concelebrazione si manifesta la loro comunione». E’ un riconoscimento esplicito della loro ecclesialit? e sacramentalit?.
Sotto l’aspetto della disciplina canonica, della quale queste Chiese orientali ortodosse sono dotate, il decreto n.16, dichiara: «Fin dai primi tempi le Chiese d’oriente seguivano discipline proprie, sancite dai santi padri e dai concili, anche ecumenici […] Il sacro concilio, onde togliere ogni dubbio, dichiara che le Chiese d’oriente, memori della necessaria unit? di tutta la Chiesa, hanno facolt? di regolarsi secondo le proprie discipline, come pi? consone all’indole dei loro fedeli e pi? adatte a provvedere al bene delle anime. La perfetta osservanza di questo tradizionale principio, invero non sempre rispettata, appartiene a quelle cose che sono assolutamente richieste come previa condizione al ristabilimento dell’unit?».
Come abbiamo gi? detto, non bisogna dimenticare che le Chiese orientali ortodosse, che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica, sono disciplinate dallo stesso e fondamentalmente unico patrimonio di disciplina canonica, vale a dire da “canoni sacri” dei primi secoli della Chiesa (cf. Cost, apos. Sacri canones – 1990)). Prima del Vaticano II, i canonisti cattolici dubitavano della validit? di giurisdizione dei vescovi ortodossi sui loro fedeli.
Infine, sotto l’aspetto dottrinale, il decreto, n. 17, sottolinea:
«Ci? che sopra ? stato detto circa la legittima diversit? piace dichiararlo pure della diversa enunciazione teologica delle dottrine. Poich? nell’indagare la verit? rivelata in oriente e in occidente furono usati metodi e prospettive diversi per giungere alla conoscenza e alla proclamazione delle cose divine. Non fa quindi meraviglia che alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti in modo pi? adatto e posti in miglior luce dall’un o che non dall’altro, cosicch? si pu? dire allora che quelle varie formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi. Per ci? che riguarda le autentiche tradizioni teologiche degli orientali, bisogna riconoscere che esse sono eccellentemente radicate nella sacra scrittura, sono coltivate ed espresse dalla vita liturgica, sono nutrite dalla viva tradizione apostolica, dagli scritti dei padri e degli scrittori ascetici orientali e tendono a una retta impostazione della vita, anzi alla piena contemplazione della verit? cristiana».
La storia della teologia testimonia che nei primi secoli le divergenze teologiche tra Oriente e Occidente, come pure tra i Padri della Chiesa erano molto pi? numerose di quelle che esistono oggi tra Ortodossi e Cattolici; tuttavia allora, l’unit? regnava ugualmente. La rottura e l’incomprensione giunsero quando una parte ha tentato di imporre all’altra il suo modo di pensare e per imporlo ha usato a volte anche la violenza materiale nel momento in cui aveva la possibilit?. Il Vaticano II, per ristabilire l’unit?, pone alla base la diversit? culturale. Unit? in ci? che viene da Dio, diversit? in ci? che proviene dall’uomo, diversit? nell’unit?.

La comunione nei sacramenti con i fedeli ortodossi
Quel che precede dimostra che il Vaticano II ha riesaminato la posizione della Chiesa cattolica verso le Chiese ortodosse, in considerazione del grado profondo di comunione nella fede con esse, anche se ancora imperfetta, riconoscendo la loro ecclesialit? e sacramentalit?. Ne deriva che ha modificato la sua precedente rigorosa normativa canonica riguardante la partecipazione ai sacramenti (communicatio in sacris) con i fedeli orientali ortodossi. A questo proposito il decreto OE, n. 26-27, prescrive:
«La comunicazione in cose sacre (Communicatio in sacris) che offende l’unit? della Chiesa o include la formale adesione all’errore o il pericolo di errare nella fede, di scandalo e di indifferentismo, ? proibita dalla legge divina. Ma la prassi pastorale dimostra, per quanto riguarda i fratelli orientali (ortodossi), che si possono e si devono considerare varie circostanze di singole persone, nelle quali n? si lede l’unit? della Chiesa, n? vi sono pericoli da evitare, e invece urgono la necessit? della salvezza e il bene spirituale delle anime. Perci? la Chiesa cattolica, secondo le circostanze di tempi, di luoghi e di persone, ha usato spesso e usa una pi? mite maniera di agire, offrendo a tutti tra i cristiani i mezzi della salvezza e la testimonianza della carit?, per mezzo della partecipazione nei sacramenti e nelle altre funzioni e cose sacre. In considerazione di questo, il santo concilio, “per non essere noi, per la severit? della sentenza, di impedimento a coloro che sono salvati” e per fomentare di pi? l’unione con le chiese orientali da noi separate, stabilisce il seguente modo di agire.
«Posti i principi sopra ricordati, agli orientali, che in buona fede si trovano separati dalla Chiesa cattolica, si possono conferire, se spontaneamente li chiedono e siano ben disposti, i sacramenti della penitenza, dell’eucaristia e dell’unzione degli infermi; anzi, anche ai cattolici ? lecito chiedere questi sacramenti da quei ministri acattolici, nella cui Chiesa si hanno validi sacramenti, ogni volta che la necessit? o una vera spirituale utilit? a ci? induca, e l’accesso a un sacerdote cattolico riesca fisicamente o moralmente impossibile». Queste norme del Concilio sono state codificate nei due Codici, orientale e latino (CCEO, can. 671; CIC, can.844).
Tuttavia ? da notare che la normativa delle Chiese ortodosse in materia di “comminicatio in sacris” ? molto rigida e restrittiva, che esclude la reciprocit?, ragione per cui bisogna che i nostri fedeli siano informati in merito. Infatti nell’ecclesiologia ortodossa non esiste la concezione dei gradi di comunione con le altre Chiese: si ? in piena comunione oppure non lo si ?. Solo la piena comunione autorizza la “comminicatio in sacris” con gli altri cristiani.

Matrimoni misti
Per i matrimoni misti tra, cattolici e ortodossi, il Concilio, per evitare dei matrimoni non validi quando dei cattolici orientali si sposano con dei non cattolici orientali battezzati (ortodossi), e nell’interesse della solidit? del matrimonio, della sua santit? e anche della pace delle famiglie, ha deciso che la forma canonica per la celebrazione di questi matrimoni ? obbligatoria per la liceit? soltanto. Per la validit?, ? sufficiente la presenza di un ministro sacro, osservando d’altronde le altre regole del diritto (OE 18).
Per “presenza” di un ministro sacro si intende qui il rito sacro, cio? l’intervento stesso del sacerdote che assiste per chiedere e ricevere il consenso degli sposi e benedice in quanto ministro della grazia sacramentale. Perci? i matrimoni tra cattolici e ortodossi celebrati da un sacerdote ortodosso ? valido. Queste norme sono state codificate nei due Codici, orientale e latino: CCEO, can 834 §2; CIC, can. 1127 §1.

Una data comune per la festa di Pasqua
La questione della data comune di Pasqua ? stata uno dei temi che stava pi? a cuore dei Vescovi orientali, soprattutto del Medio Oriente, presenti al Concilio Vaticano II. L?, in effetti, cristiani e musulmani vivono fianco a fianco. Gli anni in cui i cristiani, ortodossi e cattolici, non festeggiavano la Pasqua nello stesso giorno, si sentivano umiliati di fronte ai loro concittadini musulmani. L’unificazione della data di Pasqua ? per essi la prima condizione dell’unione. Mons. Philippe Nabaa, Metrpolita Greco-melchita di Beyrouth e sottosegretario del Concilio, ne dedic? il suo intervento del 10 novembre 1962.
Il Concilio nel decreto OE 20 ha affrontato la questione in questi termini: «Fino a che tra tutti i cristiani non si sar? giunti al desiderato accordo circa la fissazione di un unico giorno per la comune celebrazione della festa di pasqua, nel frattempo, per promuovere l’unit? fra i cristiani che vivono nella stessa regione o nazione, ? data facolt? ai Patriarchi o alle supreme autorit? ecclesiastiche del luogo di accordarsi, con unanime consenso e sentiti i pareri degli interessati, sulla festa di pasqua da celebrarsi nella stessa domenica».
In diversi paesi, come ad esempio in Romania (solo i greco-cattolici), in Grecia, Cipro i cattolici e gli ortodossi festeggiano la Pasqua la stessa domenica, seguendo il calendario ortodosso. Anche in Terra Santa sembra che prossimamente avverr? lo stesso.

Le Chiese cattoliche orientali nella prospettiva dell’unit? con le Chiese orientali ortodosse
Come ? stato detto, il decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum ? principalmente di natura disciplinare. Questa ? la ragione per cui termina nel n. 30, dicendo che «il santo concilio molto si rallegra della fruttuosa e attiva collaborazione delle Chiese cattoliche d’oriente e d’occidente e insieme dichiara: tutte queste prescrizioni giuridiche sono stabilite per le presenti condizioni, fino a che la Chiesa cattolica e le Chiese orientali separate vengano nella pienezza della comunione».
Il senso di questa affermazione non ? per nulla la soppressione delle Chiese cattoliche orientali dopo l’auspicata unione con l’Ortodossia, ma che le leggi che regolano oggi la vita di queste Chiese resteranno in vigore fino a quando non saranno abrogate o modificate dalla suprema autorit? della Chiesa per delle giuste cause, di cui la pi? grave ? certamente la ragione della piena comunione di tutte le Chiese d’Oriente con la Chiesa cattolica, la quale corrisponde perfettamente al desiderio di nostro Salvatore Ges? Cristo.
? significativo quel che la Commissione mista per il dialogo teologico tra le Chiese cattolica e ortodossa afferma nel documento comune di Balamand (Libano 1993): «Le Chiese orientali cattoliche che hanno voluto ristabilire la piena comunione con la Sede di Roma e vi sono rimaste fedeli, hanno i diritti e gli obblighi che sono legati a questa Comunione di cui fanno parte; perci? esse hanno il diritto di esistere e il dovere pastorale di operare per rispondere alle necessit? spirituali dei loro fedeli». Dopo l’ unione delle Chiese, per la quale gli Orientali cattolici pregano ed operano da secoli in mezzo a tante avversit? da parte di vari ambienti, non ci sar? n? assorbimento n? soppressione. L’Oriente ortodosso e l’Oriente cattolico non costituiranno che una sola Chiesa in comunione con la Chiesa di Roma, e la Chiesa di Roma in comunione con le Chiese orientali.

Conclusione
A distanza dunque di cinquant’anni dall’apertura del Vaticano II, dopo una attenta lettura degli Atti del Concilio e di alcuni importanti scritti di allora circa il bilancio del dibattito nell’Aula conciliare, si pu? dedurre che nell’insieme, i Padri conciliari orientali hanno svolto un ruolo determinante nella discussione e redazione dei documenti, specialmente dei decreti OE interamente dedicato alle Chiese orientali cattoliche, e UR, sull’Ecumenismo.
Senza dubbio, visto il piccolo numero degli orientali al Concilio Vaticano II, non era possibile influenzare ulteriormente e positivamente il fondo del pensiero teologico dei Padri conciliari latini. Almeno hanno potuto affermare chiaramente che la Chiesa cattolica non ? sinonimo di Chiesa latina, e che nella teologia orientale, come patrimonio della Chiesa di Cristo tutta intera, risplende la tradizione che deriva dagli Apostoli tramite i Padri, e si afferma nella variet? la divina unit? della fede cattolica.
Sulla situazione delle Chiese orientali cattoliche, i Padri conciliari orientali hanno reclamato e ottenuto – almeno in teoria – il riconoscimento della loro parit? assoluta di diritti e di doveri con la Chiesa latina, tra cui il diritto dell’evangelizzazione del mondo non cristiano.
Il Concilio Vaticano II ha tracciato pure la via delle riforme liturgiche e giuridiche delle stesse Chiese orientali, riforme che devono pienamente accordarsi con il fine supremo di tutte le riforme e leggi della Chiesa, in quanto in Ecclesia salus nimarum suprema semper lex esse debet. ? la ragione per cui il Concilio Vaticano II non ha accolto tutto ci? che era caduco e superfluo nell’ambito delle regole e costumi del passato oppure poco conformi alle esigenze dei tempi.
L’“aggiornamento” voluto dal Beato Papa Giovanni XXIII ? stato operato per Provvidenza Divina nel Vaticano II, e il movimento da esso iniziato ? irreversibile, che nessuno pu? fermare. Il Magistero ufficiale della Chiesa in questi cinquanta anni – dei Romani Pontefici e dei vescovi – ? fondamentalmente ispirato dai documenti del Vaticano II, guida sicura di fede e di vita.

LAJME/NOTIZIE Gennaio-Aprile 2013