LA CHIESA DI SANTO STEFANO DI GENOVA

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 Sommario:

  • Nota sulle fonti utilizzate……………………………… 2
  • Scheda generale dell’opera…………………………….3
  • Introduzione sulla Genova Romanica..…………………6
  • Collocazione urbanistica
  • La sua storia dalle origini ai giorni nostri
  • Descrizione e aspetti artistici generali
  • Una nuova ipotesi per la cripta di Santo Stefano
  • Indice delle tavole
  • Bibliografia
  1. Nota sulle fonti utilizzate
  2. Scheda generale dell’opera

La chiesa di S. Stefano, ripristinata dopo i gravi danni arrecati dalle incursioni aeree del 1942 e del 1943, è una delle più antiche chiese di Genova; eretta verosimilmente nel sec. XII, almeno nella parte presbiteriale, fu riconsacrata nel 1217 da Ugolino Conti, cardinale di Ostia e poi papa Gregorio IX, in occasione del rifacimento della facciata.

Se ne attribuì l’origine a una chiesetta dedicata a S. Michele; la cripta databile al X secolo, potrebbe essere uno sviluppo di questa.  Nel 960 il vescovo Teodolfo la costituì in abbazia, affidandola ai monaci Bobbiesi, già residenti in S. Pietro della Porta.   La chiesa fu parrocchia di Cristoforo Colombo che abitò nel vicino Borgo dei Lanaiuoli.

L’alta facciata, a strisce bianche e nere, ha un portale  a pseudoprotiro a strombo e ad archivolto ogivale, sormontato da una grande finestra circolare; il frontespizio, a doppio spiovente, racchiude una quadrifora formata da due bifore ogivali accostate e riunite sotto un arco a ogiva; a sinistra le è addossata un’ala costruita più tardi nello stesso stile, con un portale e sovrastante trifora. Sull’architrave del portale maggiore è visibile un’iscrizione celebrativa di Antonio da Passano, mentre sul portale laterale si può ammirare un’architrave a rilievo con le figure di S. Michele e S. Giovanni Battista, Santi protettori della chiesetta, risalente ai primi del ‘600. Si gira attorno alla chiesa sulla destra per osservarne il fianco, con in basso tombe ad arcosolio, e poi la grande abside semicircolare. Da qui sono ben visibili il tiburio ottagonale in cotto, dal vivo colore contrastante con le strutture sottostanti rivestite da paramento di pietra dalla calda tinta dorata, e la torre campanaria sul lato a mezzanotte, di pietra per tre quarti dell’altezza e superiormente in mattoni, con quadrifore al penultimo piano e pentafore all’ultimo.

L’interno con le nude pareti a masselli di pietra e con finestre a strombo, presenta il presbiterio rettangolare fortemente sopraelevato su alta gradinata, rarissimo a Genova, coperto da tiburio ottagonale con costoloni in pietra, impostato su cuffie di raccordo.  L’abside semicircolare è spartita in 7 arcatelle cieche a doppia rientranza.

Contro la parete interna della facciata è stata ricomposta la splendida cantoria degli scultori fiorentini Donato Benti e Benedetto da Rovezzano del 1499, in marmo, retta da mensoloni e ornata da formelle in bassorilievo con figurazioni allegoriche e mitologiche delle virtù della musica. Le quattro formelle rappresentano David, Orfeo, Jubal e Apollo che simboleggiano diversi strumenti musicali e il potere della musica.

Tra le numerose opere d’arte, sono da segnalare:  sulla parete di destra,  quella più famosa,  Martirio di S. Stefano, grande pala di Giulio Romano, olio su tela, uno dei suoi capolavori, dono dell’ultimo commendatario G.M. Giberti (1519-29), pio vescovo di Verona;  più oltre, la statua Madonna Regina di Genova, con il Figlio che regge la scritta  Et rege eos, della metà del Seicento, ricorda che la Vergine nel 1637 fu proclamata regina di Genova, proveniente da una delle porte della città;  verso il presbiterio, un olio su tela di Bernardo Castello (1557-1629) della fine del secolo XVI raffigurante una  Madonna con Bambino;  verso l’ingresso,  S. Ampelio morente di Vincenzo Malò, tela databile al secondo quarto del secolo XVII. In Abbazia del Santo è conservata anche una teca d’argento e cristallo con reliquario;  sulla parete sinistra,  verso l’ingresso  un Crocifisso della seconda metà del secolo XVIII; un  S. Giorgio con il Bambino in braccio e la Madonna accanto, riposo in Egitto, tela di Domenico Piola valente pittore ed incisore nato a Genova nel 1627 e morto nel 1703. Si tratta di olio su tela della seconda metà del secolo XVII, in origine appartenente alle Agostiniane del Convento della Purificazione e poi giunto in S. Stefano gli inizi del secolo XIX dopo la soppressione del monastero di via Giulia;  segue poi un dipinto su tela del pittore Luca Saltarello (1610-1655?)  Miracolo di S. Benedetto, che resuscita un muratore caduto;  dopo si può  ammirare   S. Francesca Romana che dona la parola ad una bambina muta, di Giovanni Domenico Cappellino (1580-1651). L’opera , un olio su tela, venne donata dalla comunità tedesca a Genova, nel secolo XVII particolarmente numerosa, in occasione della cessione nel 1612 , da parte dei monaci Olivetani alla comunità germanica, della Cappella di S. Francesca Romana;  l’ultima opera sulla parete di sinistra è un olio su tela, attribuito a Gioacchino Assereto (1600 circa-1649)  S. Tommaso Apostolo, che tocca la piaga di Cristo;  nel presbiterio,  sul lato sinistro, c’è di Giulio Cesare Procaccini (1574-1625) un olio su tela raffigurante   S. Bartolomeo sorretto da un angelo in volo mentre l’altro angelo gli reca la corona del martirio. L’opera venne eseguita presumibilmente tra il 1618 e il 1620;  sul lato destro è visibile di Giovanni Battista Bajardo (1620 circa-1657) un olio su tela della seconda metà del secolo XVII danneggiato durante la guerra. L’opera raffigura  Cristo risorto;  nell’abside  sono conservate,  a sinistra, attribuite a  Giuseppe Palmieri (1677-1740), un dipinto raffigurante la  Natività, con al centro il Bambino nella mangiatoia, la Madonna e attorno alla scena centrale S. Giuseppe  e i pastori; poi un olio su tela raffigurante   Cristo inginocchiato nell’Orto degli Ulivi; la terza opera è un  Cristo che sale verso il Calvario portando la Croce, aiutato dal Cireneo e circondato dai soldati; ultima opera dell’abside è un olio su tela che rappresentale  nozze di Cana, Cristo e la Madonna siedono ad un tavolo imbandito insieme agli sposi;  nella Cappella della Madonna della Guardia è visibile un dipinto della metà del secolo XVII opera di G. Andrea De Ferrari (1598-1699) raffigurante il ritrovamento di Mosè.                                                                                                                                           

Conserva, del secondo Duecento, il reliquario della  mano di Santo Stefano, urna d’argento dorato e sbalzato, con filigrane e pietre dure, con belle figurazioni, contenuto a sua volta in un altro cofano ligneo dipinto vivacemente da un artista presumibilmente locale, dell’inoltrato XIII secolo. L’urna potrebbe costituire un manufatto rappresentativo di quella florida oreficeria genovese ben documentata dalle fonti ma non altrettanto , purtroppo dalle opere; un riscontro culturale e cronologico abbastanza persuasivo è offerto dall’arca argentea per le relique del Battista conservate nel tesoro di S. Lorenzo.

La cripta, in parte rifatta, è divisa in 5 navatelle, con abside semicircolare, colonne di varia provenienza e un bel capitello romano.

  1. Genova Romanica

In epoca bizantina il primo nucleo abitato dal quale Genova si sarebbe sviluppata, si era formato sul colle scosceso del “castrum”, nella zona di Castello, intorno alla chiesa Matrice di Santa Maria.  La cinta muraria che fin d’allora era posta a sua difesa, saliva dalla scogliera delle Grazie, dove una chiesa minore ricordava S. Nazario l’evangelizzatore dei liguri, verso Sarzano, lungo Ravecca fino alla Porta Soprana, per ridiscendere al mare, ai piedi del colle, dove le navi avevano riparo, parallelamente alla “Chiavica”  secondo il percorso dell’attuale via San Bernardo, fino alla chiesa di San Giorgio, già documentata nel 947 e testimone della remota introduzione del culto del Santo di Cappadocia eletto a simbolo e patrono dei genovesi.  Alla Porta Soprana confluivano le strade dal levante di cui la più importante seguiva ancora l’antico tracciato della via romana da San Fruttuoso, San Martino, Quarto e Quinto.  Una seconda porta si apriva nella zona di San Giorgio per lasciare il passo alla via occidentale che, attraverso il Canneto, il Campo e Prè, costeggiava il litorale fino al Polcevera dove giungeva da Libarna la via Postumia.

Dal porto del Mandraccio, lungo la “Ripa” fino al Fossatello si sviluppava il quartiere commerciale con i cantieri, le officine, le botteghe artigiane e i magazzini. Verso Fossatello era sorto il primo nucleo del “burgus” fuori le mura, presso la chiesa dei Santi Apostoli eretta forse in età ambrosiana con funzioni di cattedrale, poi intitolata a S. Siro.

L’annessione al Regno longobardo di Rotari intorno al 641, favorì maggiori contatti con l’entroterra padano e incrementò la marineria al servizio di accresciuti scambi commerciali.  Anche il trapasso al dominio carolingio avvenne senza danno ed anzi la città trasse vantaggio, nell’economia dell’impero, dalla sua posizione sul mare e dall’efficienza delle sue navi.

Di altre chiese ancora è documentata l’esistenza prima del X secolo come quella di santa Sabina nella zona di Fossatello, di San Michele dove poi fu costruito Santo Stefano.  Il borgo fuori le vecchie mura si era sviluppato ai piedi di Castello lungo i tracciati paralleli di S. Bernardo, Giustiniani e del “Canneto”, giungendo a lambire la depressione del “Campetto” e delle “Vigne” sul torrente di Soziglia.  Le mura vennero estese fino a Banchi dove si apriva la porta detta di S. Pietro per la chiesa edificatavi subito dopo.  Queste mura, che nel 952 sono documentate come “murus civitatis”, determinarono fin d’allora la tripartizione divenuta più tardi ufficiale dell’abitato in “castrum”, “civitas” e “burgus”.  Al centro del nuovo quartiere sorgeva una prima chiesa dedicata a San Lorenzo, destinata in breve ad assumere sempre maggiore importanza fino a diventare la nuova cattedrale di Genova medievale.

L’armonico sviluppo della città fu improvvisamente interrotto dalla tremenda scorreria saracena del 936 che la lasciò spopolata e semidistrutta e soltanto alla fine del secolo Genova poté riprendere il suo cammino dopo una faticosa ricostruzione e un difficile assestamento civile.  I Vescovi furono i principali artefici della rinascita, ricostruirono chiese ed abbazie con la collaborazione degli ordini monastici della regola benedettina che troviamo a S. Stefano, Santa Sabina.  Nel 981 i Visconti fondavano nelle loro “Vigne” di Soziglia la chiesa di S. Maria e ancora ai benedettini venne affidata la ricostruzione dell’abbazia di S. Fruttuoso a Capodimonte abbandonata e diruta.

Contemporaneamente la popolazione ricostruiva case e navi per consentire la ripresa dell’attività marinara e nel 1016 ci fu la vittoria insieme ai pisani, contro i saraceni nella spedizione di Sardegna e nel 1078 in quella africana. Nello spazio di un secolo Genova era diventata la maggiore potenza navale del Mediterraneo.

Organizzata in autonomo Comune, generato dalla prima “Compagna”, la piccola città medievale si popola e si amplia entro e fuori le mura, estendendo man mano sulle riviere i suoi domini per fronteggiare la nascente rivalità con Pisa.  Nel 1130 i rioni cittadini vengono ripartiti in sette “Compagne”, quattro entro le mura e tre all’esterno, mentre la vita associata si afferma anche sul piano commerciale quando i cittadini proprietari di navi, in difficoltà per le scorrerie piratesche dei Mori di Spagna, costituiscono le prime società armatoriali.  Possono in tal modo affrontare, al servizio del Comune, l’ultima grande campagna contro i Saraceni.  Da quell’impresa nascono le “Compere” per garantire i prestiti fatti al Comune, primo embrione di quella forma azionaria che doveva dar vita più tardi alla Casa di S.Giorgio

Prima della fine del XII secolo tutti gli edifici religiosi erano ricostruiti e la città medievale assunse la sua “forma urbis” definitiva e maturò i caratteri di una propria architettura attraverso una continua ed intensa attività edilizia che ebbe nelle chiese la sua massima espressione.

Gli edifici religiosi vengono ricostruiti in nuove e definitive forme ma specialmente nelle chiese dipendenti dal Vescovo, vengono riutilizzati i più importanti elementi architettonici delle fabbriche precedenti, quali le colonne monolitiche, i capitelli classici, già provenienti dalle chiese anteriori preromaniche, il che determina il permanere del tradizionale impianto basilicale delle navate come è tuttora visibile nella stessa cattedrale di San Lorenzo.

Il popolo genovese, chiuso tra l’ Appennino e il mare, sempre in lotta con la terra avara e duramente impegnato sul mare per aprire nuove strade ai suoi commerci, non è incline a concessioni decorative e a ricercatezze formali.

Gli elementi tradizionali cui non erano estranee influenze mediterranee di ispirazione orientale riconoscibili nelle strutture delle cupole su pennacchi sferici di tipo bizantino, negli alti tiburi ottagonali, nelle archeggiature cieche e nei motivi ornamentali, si combinano con sistemi costruttivi schiettamente lombardi, importati dai maestri comacini, presenti fin dalla metà dell’XI secolo, e, poco dopo, elaborati dalle maestranze antelamiche.

Si determina così, attraverso differenti apporti una particolare architettura religiosa che trova un suo denominatore comune nella sua essenzialità delle strutture, nella semplicità delle forme e in quell’aspetto rude e severo accentuato dall’uso della pietra scura delle cave locali lasciata in vista.

Gli ordini monastici chiamati a ricostruire le chiese distrutte dai saraceni e a costruirne di nuove nelle periferia, furono più liberi nell’impostare schemi nuovi caratteristici dell’area padana di civiltà lombarda negli sviluppi in evoluzione con pilastri polistili e soluzioni più complesse nelle coperture a volta e a cupola.

Prima della fine dell’XI secolo i monaci Bobbiesi avevano ricostruito il complesso abbaziale di Santo Stefano.

Ai monaci vallombrosiani, a Genova nel 1064, su richiesta dei Padri del Comune, si dovettero prima della fine del secolo altre due chiese intitolate a San Bartolomeo, l’una situata in una valletta conosciuta come il “Fossato”, al di là del promontorio che separa il versante di Genova da quello di Sanpierdarena, l’altra in alto sul promontorio stesso, detto “La Costa”. Le due chiese  presentano il tipo di pianta a croce immissa con navata unica e transetto triabsidato munito di cupola al centro. La prima schiettamente lombarda nei particolari dei fornici absidali e dei raccordi tronco conici della bassa cupola ottagona e nelle coperture a crociera dei bracci del transetto. La seconda più legata all’architettura locale per lo svolgimento in torre campanaria della parte superiore della cupola.

Sotto la minaccia di Federico Barbarossa i genovesi furono costretti ad impegnarsi nell’opera colossale di una nuova cerchia di mura.

L’architettura genovese nello scorcio del secolo, vedrà sorgere ancora, accanto alle torri ed alle logge, costruzioni religiose di notevole interesse. Il chiostro di Sant’Andrea unica testimonianza rimastaci della chiesa romanica, dove i capitelli con motivi figurativi e zoomorfi si mischiano ad altri di forme più evolute goticizzanti a foglie d’acqua slanciate e carnose, conferma l’impiego di archetti a forma lunata ma già di sesto acuto verso il 1156.

Sotto il nome di “magistri Antelami” probabile raggruppamento corporativo di maestranze abili e allenate, ancora, nel 1180, la costruzione a Prè per la Commenda di San Giovanni, su due piani comunicanti con l’edificio ospitaliero, con il tipico campanile, il robusto loggiato al piano terreno e poche pesanti bifore al piano superiore, rivela, all’interno una possente struttura di basilica voltata su colonne di pietra, con archi e crociere squadrate, che chiude degnamente il ciclo romanico delle architetture religiose genovesi con i primi elementi del sopravveniente gusto gotico.

  1. Collocazione urbanistica

La chiesa, in quella zona che aveva contenuto il cimitero preromano e romano, situata fuori delle mura della Città del 1155, era poco distante dalla Chiesa di S. Andrea della Porta. Le due chiese nel Medio Evo si potevano considerare come gli stipiti di un ingresso per il quale si accedeva alla Val Bisagno. Nella collina che andava dalla zona del Piano a quella di Piccapietra sono venuti alla luce, negli scavi effettuati in tempi diversi, reperti archeologici di una Necropoli precristiana. Se il bassorilievo sepolcrale risalente al IV d. C. che attualmente funge da architrave alla porta che immette nella cappella della Madonna della Guardia, proviene da detta area cimiteriale, il ritrovamento della lapide del Suddiacono Santolo, morto probabilmente nel 493, testimonierebbe di un cimitero anche in era cristiana.

La torre, salvo il coronamento era forse parte di un sistema difensivo, avamposto alla città di periodo bizantino ed è quindi tra le più antiche; anche la cripta della chiesa include una chiesuola longobarda del VII secolo, questa successione corrisponde con probabilità agli stanziamenti militari della zona.

Chiesa e monastero, sorgevano quindi all’estremità del suburbio, lungo la via di comunicazione verso il Levante. Il complesso monastico, assunse un ruolo rilevante nello sviluppo urbanistico della Genova medievale e, con il cenobio di san Siro, fu uno dei “nodi essenziali della rinascita cittadina”. Si costituì nelle zone orientali una vasta proprietà fondiaria, che favorì, nella periferia l’affermazione del potere ecclesiastico, in contrapposizione all’avanzata della nobiltà, che dai feudi tendeva a trasferirsi nel rinnovato centro urbano per acquisirvi potere politico. Intorno all’abbazia si concentrò un vasto burgus, ma solo nel XIV secolo la chiesa veniva inclusa entro la cinta muraria, mentre il monastero fu in parte demolito per l’ampliamento delle mura.

Tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento si realizzava la futura Via XX Settembre, sul tracciato delle antiche vie Giulia e della Consolazione, una strada che divenne in breve l’asse del nuovo centro della città. Il primo tratto della via Giulia andava dalla Piazza San Domenico con l’omonima chiesa del XIII secolo, alla porta dell’Arco, uno dei varchi nelle mura edificate nel XIV secolo, sotto il monastero di Santo Stefano. Il progetto era dell’Ingegner Cesare Gamba, anche imprenditore, che prevedeva la demolizione di alcune cappelle sul fianco destro dell’antica chiesa. Furono costruiti anche i porticati neogotici sottostanti.

Dopo l’ultima guerra, i rinnovi urbani realizzati nei borghi orientali di Piccapietra e di via Madre di Dio, sono stati così completi e definitivi da spianare nel primo caso un’intera collina travolgendo le mura del XII secolo compresa la stessa Porta Aurea. Il piccone demolitore ha cancellato per sempre il volto dell’antico e poetico territorio parrocchiale di S. Stefano, dove sorgevano le grandi moli degli ospedali degli Incurabili (XVI sec.) e di Pammatone  (XV sec.) ma denso di vicoli stretti e tortuosi, sfocianti in piazzette dalle caratteristiche singolari, sormontati da archi graziosi, intestati a nomi di Santi, di personaggi illustri, a corporazioni, testimonianza di una popolazione dalla attività febbrile. Non esistono più le case dagli antichi portali in ardesia artisticamente scolpita, che numerose avevano all’angolo il tempietto con la statuina della Madonna, e l’immancabile lumino acceso, sostenuto da artistici bracci in ferro battuto, vicoli dell’antica Portoria che odoravano di casa, di famiglia, di fraternità.

Oggi la chiesa, in piazza S. Stefano 2, nelle vicinanze della spianata dell’Acquasola, lambita dal Ponte Monumentale, anch’esso opera progettata dall’ingegner Gamba, affacciata sulla centralissima Via XX Settembre, circondata da palazzi eclettici e liberty, appare isolata da quel che la circonda.

  1. La sua storia dalle origini ai giorni nostri

Nel V secolo aveva già vita una chiesuola primitiva, dedicata a San Michele e San Gabriele, i due Arcangeli venerati in modo speciale dai Benedettini ed il culto dei quali arrivò probabilmente in Genova al seguito di questi monaci. E’ notoria la venerazione che S. Michele godeva presso i Longobardi  (San Michele di Pavia, San Michele di Monte Gargano).  Sorgeva ove in parte ora sorge la navata sinistra di S. Stefano.

Sono del 965 e del 969 i primi documenti che testimoniano l’esistenza di un monastero, abitato da monaci e monache che formavano famiglie monastiche distinte, rette da rispettivi superiori, chiamati Abate e Abbadessa.

Teodolfo II Vescovo di Genova dal 970 al 985 prese a cuore la sorte del Monastero e Chiesa del Protomartire Stefano, riedificò ampliandola la Chiesa, ingrandì il monastero ed apportò all’edificio radicali trasformazioni.  La costruzione preesistente, era l’antica cripta di un tempio di epoca barbarica che comprendeva probabilmente la chiesetta stessa, l’attuale presbiterium e formava forse un piano solo con la chiesa, poiché durante i lavori di assestamento si rinvennero tre pavimenti, il più basso dei quali, fatto con rozze lastre poligonali, fu trovato inclinato in maniera tale verso l’abside da formare con tutta probabilità una sola superficie pianeggiante. L’abside rivolta ad oriente aveva sul fianco sinistro una torre campanaria completamente staccata da essa ed isolata, quella della chiesa attuale si appoggiò al campanile a seguito dell’ampliamento fatto eseguire da Teodolfo II.  La torre campanaria, che si ritiene anteriore,  bizantina, servì da baluardo militare, venendo più volte presidiata a difesa della città, specialmente al tempo delle lotte tra Guelfi e Ghibellini.

Completate le opere, Teodolfo II accrebbe la famiglia monastica riaffidando ai monaci la cura delle anime del Borgo ed è per tutto questo lavoro che ne viene considerato il fondatore nel 972.  Per il Castagna le dimensioni dei mattoni, messi in luce negli scavi per la costruzione di Via XX Settembre, confermavano l’epoca del vescovo Teodolfo.  I monaci, in questa circostanza, vennero a Genova dall’Abbazia di S. Colombano di Bobbio unendosi a quelli già esistenti in S. Stefano.

Non prima del 1054 e non più tardi del 1135 la Chiesa di S. Stefano sarebbe stata eretta parrocchia, come deduce il Ferretto da una bolla di Innocenzo II dell’11 gennaio 1134 e nel 1217 fu consacrata dal futuro Papa Gregorio IX nell’occasione del rifacimento della facciata nelle forme attuali a fasce bianche e nere, senza l’ala sinistra ancora posteriore.  Fu la prima costruzione genovese che introdusse l’uso del parametro bicromo di marmo e di pietra nera, con il carattere di transizione dal romanico al gotico.

L’Abate Nicolò Fieschi fece costruire la bellissima cupola, in laterizio, nel 1306; e allo stesso secolo XIV è ritenuta databile la cella campanaria in mattoni con le doppie serie di polifore, all’epoca dell’Abate Azzo, alzato in due riprese.

La Repubblica di Genova verso il 1320 costruì nuove mura a cinta della città che includono la chiesa, mentre il monastero fu demolito completamente.  Nel 1349 il flagello della peste decimò la numerosa famiglia monastica.

Il Pontefice Bonifacio IX con bolla del 21 settembre 1401 passò in Commenda l’Abbazia di S. Stefano, conferendola a Ludovico Fieschi fu Nicolò.

Nel 1497 venne annessa una cappella sinistra, oggi dedicata alla Madonna della Guardia delle dimensioni di una navatella e messa direttamente in comunicazione col corpo della chiesa, Allo stesso periodo risale anche la cantoria marmorea di Benedetto da Rovezzano e Donato Benti, fatta eseguire dall’Abate Commendatario Lorenzo Fieschi.

L’Abate Giovanni Matteo Giberti, vescovo di Verona, ultimo Commendatario, diede l’abbazia e il monastero ai monaci Olivetani nel 1529, che vi rimasero come proprietari fino al 1775 e come ospiti fino al 1797.  Pochi anni dopo fu completamente demolito l’antico monastero, per la costruzione di Porta del’Arco e solo nel 1652 venne riedificato un nuovo complesso monastico.  Nel corso del XVII secolo furono eseguiti restauri all’interno della chiesa, con il contributo della famiglia Da Passano, che ottenne il giuspatronato dell’intero edificio ed il diritto di apporre sulla facciata iscrizioni e stemmi. Furono costruite anche le cappelle addossate alla parete sud.  Nel 1776 passò al clero secolare.

Nel 1784, la sacra immagine della Madonna della Guardia, opera di Maria De Simoni del Borgo dei Lanieri, sito nella Parrocchia di S. Stefano, richiestale dall’amica Maria Teresa Pizzorno, fu posta stabilmente  nella chiesa, anche per la pressanti richieste del Rev. Rovere.

Venduto a privati nel 1815 e ormai in piena decadenza, il monumento rischiava un triste destino perché la popolazione dell’antico e storico sestiere di Portoria andava aumentando e l’antica chiesa si rivelava insufficiente; l’Arcivescovo di Genova si appellò, per la costruzione di una nuova chiesa, a Parrocchiani e Cittadini, che risposero con slancio e le offerte elargite consentirono i lavori di fondazione.  Nel 1846 l’architetto Domenico Cervetto si ispirò per il disegno allo stile neoclassico ma i moti del 1848 fermarono ogni iniziativa.

Nel 1884 la ricorrenza del centenario della collocazione del Quadro di N. S. del Monte Figogna apparsa a Benedetto Pareto, non fu possibile celebrarla, a causa dell’epidemia di colera;  l’anno successivo la partecipazione dei fedeli alle funzioni di ringraziamento alla Madonna, per la liberazione dalla malattia mortale, fu imponente.

Alla fine dell’800 secondo il piano regolatore di via Giulia e Piccapietra, che mirava a diradare il tessuto antico in favore di un rettifilo, furono demolite alcune cappelle sul fianco destro dell’antica chiesa, per consentire la creazione di via XX Settembre, in sostituzione dell’angusta via Giulia.  Il Municipio si assunse l’onere di restaurare l’antico edificio. I restauri furono eseguiti sotto la direzione del Prof. Giovanni Campora.  Nel 1898 fu ricostruito in “stile” il corrispondente muro meridionale e nel 1901 fu demolita la casa a tre piani sovrapposta all’abside e successivamente anche un ulteriore fabbricato che aveva fagocitato la base del campanile.

Ottenuto il beneplacito delle autorità ecclesiastiche, con il Decreto del Sommo Pontefice Leone XIII, il 24 aprile 1904 l’Arcivescovo di Genova Mons. Edoardo Pulciano procedette alla benedizione e alla posa della prima pietra della nuova Chiesa.

Sostituito il disegno dell’Architetto Cervetto con altro di stile neoromanico dell’ing. Camillo Galliano, coadiuvato in seguito dall’ing. Cesare Barontini, per l’interessamento dell’Abate Prevosto  Rev. Luigi Casella che governava allora la Parrocchia,  i lavori procedettero alacremente. Il tempio sorse sull’area di demolizione del monastero seicentesco, a tre navate divise da leggeri pilastri, alternati da colonne di granito lucido di Baveno; secondo il progetto 13 gli altari, oltre il maggiore, sei per ciascuna delle due navate laterali in cappelle rientranti e la cupola ottagona; vetri istoriati delle finestre ed occhi nel coro, nelle cappelle, lungo la chiesa, sopra le porte del valente L. Balmet di Grenoble.  La chiesa fu benedetta ed aperta al pubblico il 23 agosto 1908 e fu intitolata  “N.S. della Guardia e S. Stefano”.

Lo stesso giorno la Chiesa di S. Stefano venne chiusa al culto.  Alla nuova chiesa passò pressoché interamente il ricco patrimonio di opere d’arte, che lungo i secoli si era andato costituendo presso l’antica abbazia.

Il 17 gennaio 1912, la notizia fu data dal “Corriere Mercantile”, crollò la navata di N. S. della Guardia nella vecchia chiesa sopra una navata laterale della nuova, con danni rilevanti.  La Soprintendenza ai monumenti dispose che la facciata della navata laterale dell’antica chiesa venisse ricomposta secondo le sue linee originali, riaprendo l’elegantissima trifora che in precedenza era stata murata.  Fino al 1915, anno della sua scomparsa, la chiesa ebbe come suo difensore l’architetto Alfredo d’Andrade, secondo il quale era indispensabile servirsi di maestranze specializzate, educate ad una perfetta riproduzione dell’antico, anche nelle tecniche di esecuzione e nei materiali.

Dal 1920, per i successivi 27 anni fu al governo della Parrocchia il Rev. Dott. Nicolò Molfino; l’ultima di una serie di opere decorative cui si dedicò fu il bellissimo Battistero, inaugurato il 30 maggio 1935.   L’Italia il 10 giugno 1940, alleata della Germania, si schierò contro Francia ed Inghilterra, ne seguirono per la nazione e la città tribolazioni, lutti ed immani rovine.

Nei bombardamenti anglo-americani del 23 ottobre , 7 novembre 1942, e in quello della notte  fra il 7 e l’8 agosto 1943, sia la nuova che la vecchia chiesa subirono danni gravissimi; in quello del 23 ottobre 1942 entrambi gli edifici ebbero i tetti sfondati e subirono danni anche gli altari. In quello del 7 novembre dello stesso anno una bomba colpì un angolo della nuova chiesa e distrusse la canonica che le sorgeva accanto.  Fu totalmente distrutta la navata destra e quella sinistra ebbe gli altari infranti.  Più grave il bombardamento dell’agosto 1943; dopo le bombe e gli spezzoni incendiari, della vecchia chiesa rimase in piedi la cupola, il campanile, il muro sinistro e mezza facciata spaccata da cima a fondo; dalla parte di via XX Settembre sprofondò anche il sottostante porticato.  Nella nuova chiesa furono rotti i tetti dell’abside e della cupola, che nelle precedenti incursioni erano stati danneggiati soltanto lievemente; tutti gli altari furono infranti, gli affreschi scrostati e anneriti e le statue rovesciate.

La Chiesa di S. Stefano,  anche questa volta risorse dalle rovine bella e maestosa per l’interessamento del Cardinale Giuseppe Siri Arcivescovo di Genova che decise per la restaurazione della vecchia Chiesa.  I lavori di restauro, iniziati nel 1946 dal Soprintendente Prof. Carlo Ceschi, poi trasferito a Roma, e continuati dall’Architetto Trinci della Soprintendenza di Genova, si protrassero fino al 1955.  Furono 10 anni di attesa e di lavoro affrontati dal Rev. Castagnola e l’11 dicembre 1955 il Card. Siri consacrò e riaprì solennemente al culto, dopo quarantasette anni di chiusura, la chiesa.

I successivi restauri del 1985-1991 hanno mirato soprattutto a consolidare le strutture e a migliorare l’aspetto degli spazi esterni.

Personaggi insigni vissero tra le mura di S. Stefano o ebbero rapporti di rilievo con l’Abbazia. Secondo una tradizione abbastanza fondata, Cristoforo Colombo vi sarebbe stato battezzato.  Santa Caterina Fieschi Adorno fece parte della comunità parrocchiale, essendo l’ospedale di Pammatone nel quale per lunghi anni assistette i malati, nel territorio della Parrocchia.  Il celebre scultore Anton Giulio Maragliano fu battezzato in S. Stefano il 18 settembre 1664.  Le mura di S. Stefano accolsero pure per  il sonno eterno il Doge Antonio Da Passano, la Direttrice dell’Ospedale di Pammatone Veronica Semino, il fondatore delle scuole popolari in Genova Don Lorenzo Garaventa, Maria Teresa Pizzorno ved. Scionico, donatrice del quadro di Nostra Signora della Guardia alla chiesa stessa.  Secondo una incerta tradizione anche il Balilla sarebbe stato sepolto in S. Stefano.  Dal centro di Portoria partì la sera del 5 dicembre 1746, la scintilla della rivolta popolare contro l’occupazione austriaca, conclusasi con la cacciata dei nemici il giorno 10 dopo una lotta furibonda.   Iniziatore della rivolta fu il Balilla, che una tradizione identificò con un G. B. Perasso, nato nella parrocchia di S. Stefano nel 1735, notizia che però non può essere confermata storicamente.

 

  1. Descrizione e aspetti artistici generali

La facciata a capanna è listata a bande orizzontali bicrome, in marmo e pietra, largamente risarcite dai restauri, che si estendono anche sull’adiacente prospetto della cappella della Guardia, sorta di navatella sinistra totalmente rifatta. Le fasce bianche e nere sono usate per la prima volta in una costruzione genovese, rappresentando il carattere di transizione dal romanico al gotico.

Il portale maggiore riproduce forme tipiche dell’architettura genovese fra ‘200 e ‘300, mentre il minore recupera nella lunetta un’interessante rilievo romano con la figura della defunta, due geni alati e le personificazioni di Oceano e Terra, del IV secolo, sovrapposto ad un architrave di fine ‘400.

Le finestre, trifora a sinistra con piccolo oculo, quadrifora al centro in alto sono molto condizionate dai restauri, che però non hanno ricostruito la ruota del grande rosone, mentre i bacini ceramici inseriti fra gli archetti pensili lungo lo spiovente principale, copiati in parte da quelli di S. Paragorio a Noli, risalgono ad un’operazione integrativa del 1897-98. In verità esistevano all’epoca gli incavi e almeno tre fondi di bacini, segno che l’inserimento era già  stato programmato in epoca medievale. L’impiego del sesto acuto negli archetti di coronamento, nella bifora in alto che racchiude altre due bifore minori e nel portale, pur non essendo una novità nella seconda metà del XII secolo, è qui ben definito, ma i blocchi dei capitelli del portale sono tuttavia compenetrati da uno spirito ancora prossimo quello tardo romanico. Nella lunetta centrale della bifora, si vede il simbolico agnello scolpito con cura ed eleganza.

Le iscrizioni apposte dai Da Passano ai lati del portale maggiore e accompagnate da stemmi gentilizi corrono su sei fasce di marmo, quelle di destra sono molto frammentarie. Fatto curioso, le prime quattro commemorano fatti e personaggi dal XII al XV secolo e sono scritte in lettere gotiche epigrafiche, le due più basse,  XVI e XVII secolo, in capitali. Poiché tutte le iscrizioni sembrano essere state realizzate al principio del ‘600, c’è la possibilità che ci si trovi di fronte a un singolare caso di scrittura neomedievale, o alla semplice ricopiatura di epigrafi più antiche. Nel secolo XVII i nobili Da Passano ottennero di solcare le listelle marmoree della facciata con iscrizioni a somiglianza di quelle incise sulla fronte della storica chiesa di San Matteo, iscrizioni che illustrano le gesta della loro famiglia, in realtà le gesta gloriose furono compiute dai Pessagno di Portogallo e non dai Da Passano.

Nella facciata si possono osservare le mensole per l’appoggio di un portico antistante di abbellimento, costruzione tipica delle chiese dell’Ordine benedettino, arrestata per cause ignote. Il rifacimento della facciata ha naturalmente distrutto ogni traccia di quella anteriore , ma tutto il resto della chiesa si è dimostrato costruttivamente e stilisticamente unitario, per cui possiamo essere sicuri che debba trattarsi di quella costruita dai benedettini.

La grande monumentalità del fianco sud deve molto ai restauri, che hanno ricucito il paramento rinnovando anche una sequenza di tombe ad arcosolio. In corrispondenza del tiburio le murature medievali tornano a farsi intellegibili con tanto di fregio ad archetti in forte aggetto, ma in una zona di non facile lettura proprio per la scomparsa degli edifici che vi erano addossati, cosa che rende del tutto incomprensibile, ad esempio la presenza di una porta che dal coro immetteva nel monastero, e che oggi si apre nel vuoto.

La chiesa romanica di Santo Stefano è stata fin dalle origini ad una sola navata, con ampio presbiterio rialzato e unica abside di pari larghezza.

La sua pianta misura all’interno m. 10,70 di larghezza per quasi 40 metri di lunghezza, ma la forma così allungata è attenuata dalla netta distinzione tra la navata e la zona presbiteriale.

La navata era divisa in due quadrati, da due grosse lesene che spezzavano a metà l’uniformità delle pareti alte e lisce. Delle due lesene sono state cancellate le tracce, in uno dei riattamenti che si erano susseguiti dal seicento all’ottocento.

Il presbiterio era stato abbassato ad un livello più accessibile dalla chiesa e un grandioso altare barocco vi era installato, mentre le pareti si rivestivano di stucchi fino alle neoclassiche decorazioni del Barabino. L’abbassamento del presbiterio aveva avuto per conseguenza la distruzione della cripta di cui erano rimasti pochi avanzi unicamente nell’estremo tratto compreso nel catino dell’abside. E’ risultato che il presbiterio si alzava di 3 metri sul livello della navata per elevarsi ancora di quasi un altro metro nell’abside.

Alla navata limitata dalle alte fiancate appena ravvivate da rade monofore, senza ornamenti all’interno altro che per il tetto in origine dipinto e ricostruito sul modello dell’antico, fa riscontro la zona presbiteriale di un interesse notevolissimo per la sua grandiosa soluzione architettonica. In realtà l’impostazione è semplice e l’effetto di grandiosità è dovuto unicamente alle proporzioni dell’ambiente ed ai rapporti tra i suoi elementi. Il quadrilatero di base, che misura m. 11,10 è definito sui fianchi dalle murature laterali che, pur elevandosi oltre la copertura, non sporgono dal filo della navata conservando in tal modo quel senso di continuità che rende unitario l’intero ambiente della chiesa. Un poderoso arcone costituito da arco e sottoarco, poggiato su semplici lesene e sottolesene, costituisce il passaggio tra la navata con tetto a capriata lignea e il presbiterio coperto a cupola. Un secondo arcone leggermente più largo e più alto, crea lo spazio absidale conchiuso dall’ampio catino emisferico. La cupola vasta quanto il presbiterio, si svolge ottagona impostandosi sul breve tamburo attraverso le quattro eleganti cuffie angolari, è tutta in pietra scura squadrata e martellinata. La muratura lapidea si ferma al di sopra del tiburio dopo i raccordi angolari, dove un cordone orizzontale segna la partenza degli spicchi a sesto rialzato della cupola vera e propria costruita in mattoni. Analogamente, all’esterno, il tiburio racchiudente la cupola, continua in mattoni da quello stesso livello giustificando l’ipotesi di un completamento o di una ricostruzione posteriore. Il cordone d’imposta, all’interno, si accorda negli otto angoli con altrettante mensole che offrono appoggio ai costoloni rotondi che accompagnano, separandoli, gli spicchi di volta della cupola e si uniscono al centro nella pietra di chiave ornata da un Agnus Dei. E’ del 1306 una parziale ricostruzione della copertura; essendo la chiesa praticamente priva di fondazioni, la cupola originaria non avrebbe resistito alla propria spinta, come può essere anche testimoniato dal grosso contrafforte, addossato esternamente all’angolo sud-est del quadrato presbiteriale, la cui costruzione, sul lato dove non c’era il campanile non potrebbe essere altrimenti spiegata. La prima cupola può presumersi fosse in tutto simile all’attuale, salvo i costoloni. Lo schema architettonico del presbiterio con cupola ottagonale su raccordi angolari a calotta emisferica ed abside semicircolare tutta sporgente, costituisce con Santo Stefano una espressione unica in Liguria dove il tipo basilicale permane anche nelle stesse costruzioni benedettine  “extra moenia” come San Siro, Santa Sabina e Sant’Andrea. Santo Stefano sfugge anche alla tendenza a svolgere in torre nolare, la stessa cupola, per mantenersi strettamente legata agli schemi lombardi.

La decorazione architettonica si concentra nell’abside che svolge tanto all’interno che all’esterno un motivo di arcate cieche su semicolonne, anch’esso unico in Liguria. Sopra l’alto zoccolo racchiudente la cripta, attraversato dalle profonde monofore che le danno luce, si sviluppano sette arcate sorrette da semicolonne uscenti da lesene che fanno da sfondo e proseguono ininterrotte nel sottarco accentuandone l’effetto chiaroscurale. Gli archi sono sottili e leggermente lunati, i capitelli a foglie e piccole volute d’imitazione classica, le basette con rialzamenti protezionali agli angoli. Le arcate sono coronate da una fila di minori arcatelle appena aggettanti dal fondo liscio e, dopo un altro corso di pietre, con una cornice sgusciata, l’abside si conclude. Assai arduo è determinare l’ispirazione che ha generato questo insieme decorativo in epoca così lontana in una chiesa genovese. Più o meno contemporaneamente forme simili erano apparse anche in altre regioni come la Puglia dove in alcune cattedrali, avevano avuto le maggiori affermazioni. Ciò ha fatto pensare ad influssi comuni ed estranei, contemporaneamente importati nelle città marinare che prime avevano lanciati i loro commerci sulle rotte orientali. Una delle ipotesi fondamentali può essere quella che si riferisce alle possibili influenze dell’architettura armena, che aveva realizzato insigni monumenti dove cupole poligonali con raccordi a cuffia e l’ornamentazione delle arcate cieche risultano pienamente risolte in pieno X secolo. Non va però dimenticato che la forma più semplice delle arcate cieche era già stata usata dagli architetti ravennati fin dal V secolo e si era diffusa nella valle padana in età protoromanica varcando le Alpi dove risulta presente nelle chiese carolingie. Arcate cieche su semicolonne e lesene possono avere avuto in Lombardia uno sviluppo autonomo prima di raggiungere la forma definitiva che si vede nelle absidi delle chiese bergamasche. Nell’abside di Santo Stefano non sono estranei richiami lombardi per la decorazione ad arcatelle continue che si svolge sopra gli archi dell’ordine principale. Queste arcatelle, che in S. Bartolomeo del Fossato hanno avuto sulla fine dell’XI secolo il vero carattere dei fornici lombardi costituiscono invece in Santo Stefano un’interpretazione appiattita delle nicchie svuotate delle più antiche absidi lombarde. Il motivo delle arcate cieche su colonnine si ripete in Santo Stefano anche all’interno dell’abside, secondo uno schema architettonico raro nell’Italia settentrionale, ma frequentissimo nelle chiese medioevali della Provenza e della Linguadoca. La maggior parte di queste sono del XII secolo, ma il fatto che di chiese anteriori siano rimasti esempi, denota una diffusione più remota che gli studiosi francesi fanno risalire all’età carolingia. Non si può quindi nemmeno escludere che i genovesi, ricchi di rapporti con gli scali della Provenza abbiano ricevuto di ritorno tali elementi ravennati, dopo la loro elaborazione carolingia e altomedievale nel sud della Francia, e quasi a conclusione di un misterioso ciclo artistico, nel cuore della Toscana. Il fatto isolato in Liguria dell’abside di Santo Stefano va quindi considerato ancora una volta come scaturito, nel lievitare di tanti fermenti, nel punto di confluenza delle più lontane correnti, già esposte quasi certamente non più tardi della prima metà del sec. XI.

 

La chiesa di Santo Stefano fu colpita dai bombardamenti aerei del 1942-43, ma i lavori di restauro hanno offerto la possibilità di controllare le fasi costruttive del monumento e di esplorare l’area della cripta, i cui resti erano stati sepolti, dopo l’abbassamento del presbiterio.    Di questa cripta che aveva fatto parte della chiesa romanica, era nota l’esistenza per le quattro colonnine che potevano vedersi scendendo dietro l’altare dopo che erano stati svuotati alcuni depositi d’ossa, ma soltanto il Castagna aveva espressa l’opinione che si trattasse di parte di una chiesuola primitiva rinchiusa dentro la più capace abside di Teodolfo.                             Lo sbancamento eseguito fino al di sotto delle fondazioni ha rivelato buona parte dei resti delle colonnine sepolte, le basi o le impostazioni delle altre, in modo da rendere possibile  la ricostruzione iconografica dell’ambiente, almeno nella sua ultima forma coeva alla chiesa sovrastante. L’esplorazione delle strutture, l’esame dei livelli delle basi d’appoggio delle varie colonne, i confronti di questi livelli con le quote di fondazione delle murature della chiesa dell’XI secolo, hanno permesso di giungere alla sicura conclusione di trovarci in presenza di una cripta di molto anteriore alla chiesa romanica. In particolare l’abside della cripta risultava tutta interna e pressoché concentrica rispetto a quella della chiesa superiore, e più bassa delle sue stesse fondazioni. Procedendo ad opportuni saggi è stato possibile constatare che il muro dell’abside della cripta, spesso m. 1,60 è tuttora intonacato all’esterno dove si addossa la muratura dell’abside maggiore. E’ perciò evidente che i resti attuali della cripta erano stati in origine, parzialmente fuori terra e liberamente visibili all’esterno.

Nell’edificare la nuova più grande chiesa i costruttori dell’XI secolo avevano conservato la cripta più antica racchiudendola nel semicerchio della nuova abside, la cui muratura, accuratamente apparecchiata in conci squadrata all’esterno e all’interno gettata a sacco contro la superficie della preesistente cripta. Stabilita in tal modo con assoluta certezza la priorità della cripta sul resto della chiesa, si è potuto constatare che nella sua ultima forma si presentava con la consueta disposizione di colonne sorreggenti volte a sesto variabile, apparecchiate secondo una rustica crociera.

L’osservazione dei livelli di posa delle colonne e dei livelli di partenza delle murature della chiesa romanica ha inoltre dimostrato che la cripta non era nata con l’attuale ampiezza, ma doveva essere costituita da due sole file di colonne che la dividevano in tre navate. Le basi delle quattro colonne di fondo nel semicerchio absidale erano allo stesso livello; e quelle antistanti, verso la chiesa, un piccolo gradino più basse, ma le altre sui due fianchi del presbiterio risultavano invece impostate ad una quota più alta di oltre cinquanta centimetri. Si aveva qui l’indizio di un livello ultimo del pavimento che non poteva essere l’originario e che doveva invece corrispondere ad un rimaneggiamento della cripta antica quando vi si costruì intorno la nuova chiesa.

Prima dell’XI secolo doveva dunque esistere, nello stesso luogo dell’attuale, un’altra chiesa abbastanza importante, ma di minor mole, fornita di una cripta su tre navate. Questa chiesa, in decadenza sulla fine del X secolo, fu interamente demolita dopo l’installazione dei monaci bobbiesi di San Benedetto salvo la cripta che, forse per ragioni di culto, venne conservata e racchiusa nella nuova monumentale costruzione.

E’ da notare che la torre campanaria situata sul lato a mezzanotte del presbiterio era sorta lievemente staccata dalla vecchia chiesa come è dimostrato dalle grosse bugne in pietra, lavorate a faccia vista su tutti e quattro i lati. Nel suo interno ha delle scale poste su archi dalle forme rialzate nel centro, costante caratteristica dell’architettura romanica lombarda di quell’epoca. L’abside della chiesa romanica, svolgendosi tutta esterna alla muratura della chiesa preesistente, si appoggiò alla torre campanaria coprendone tutto il lato che fu reso comunicante col presbiterio.

La cripta determinò la quota del presbiterio stesso che dall’altro lato comunicava col convento come è dimostrato dalla porta costruita a quell’altezza. Il giro dell’abside, al di fuori dello spesso muro della cripta, determinò un allargamento del nuovo presbiterio su ambedue i lati fino ai muri di fiancata che erano stati fondati sul terreno vergine all’esterno della chiesa più antica e a una quota anche superiore al pavimento della stessa cripta. L’allargamento del presbiterio indusse all’ampliamento della cripta fino all’incontro con i nuovi muri d’ambito e lo spazio, prima occupato dalla muratura della cripta, fu risolto con l’aggiunta delle due campate estreme e l’inserimento di tre altre colonne per lato e, poiché le murature romaniche erano impostate ad un livello più alto, si dovette rialzarne il pavimento. Circa la datazione storica della cripta, una volta riconosciuta la sua appartenenza ad una chiesa anteriore, dobbiamo rifarci alla chiamata dei monaci da parte del vescovo Teodolfo ad occupare un monastero già esistente all’epoca della badessa Sara nel 962, ma probabilmente in precarie condizioni fin dall’ultima incursione saracena del 936.

Se si collega l’attività del vescovo Teodolfo, quale riparatore delle chiese genovesi sulla fine del X secolo, al fatto che prima di lui le condizioni sociali non avevano permesso un efficace ristabilirsi dell’organizzazione religiosa, bisogna concludere che la chiesa costituita in abbazia da Teodolfo doveva essere anteriore alla devastazione saracena.

Dallo scavo della cripta sono venuti in luce tre capitelli che, insieme ai quattro ancora in sito sulle colonne, costituiscono gli unici elementi decorativi cui possiamo riferirci nella ricerca di una maggiore precisazione storica del monumento. Essi differiscono l’uno dall’altro, sicchè non manifestano unità di origine e di stile. Come di solito non manca il capitello romano reimpiegato, anche se di proporzioni inadatte e quindi molto scalpellato per ridurlo alle dimensioni della colonnina sottostante. Gli altri sono per la maggior parte di tipo altomedievale con foglie appena delineate e volute sommarie agli angoli. Gli ultimi due, ritrovati nello scavo, presentano forme diverse e più caratteristiche, l’uno per un primitivo svolgersi del doppio ordine di foglie intercalate, quelle inferiori ripiegate e quelle superiori allungate e ornate sulla costola da una incisione a palmetta, l’altro imitante modelli classici con bella libertà interpretativa e caratteristica incisività di disegno. Sembra che questo insieme di capitelli, con il tipo di muratura dell’abside, possa richiamare forme protoromaniche simili a quelle dei resti della cripta della chiesa dei Santi Nazario e Celso che sono le più venerabili testimonianze che il sottosuolo di Genova ci ha conservato del suo più lontano medioevo.

 

UNA NUOVA IPOTESI PER LA CRIPTA DI S. STEFANO

Dopo la scoperta e la messa in luce della cripta di S. Stefano, il problema riguardante la chiesa è diventato quanto mai interessante e vivo. La sua soluzione o, per lo meno, un tentativo di soluzione, potrebbe portare un piccolo spiraglio nelle vicende in parte ancora oscure e problematiche della Genova altomedievale.

Il Ceschi, a cui si devono la scoperta della cripta ed il restauro successivo di tutta la chiesa , tentò una ricostruzione del monumento nelle sue varie fasi costruttive, appoggiandosi a dati documentari e servendosi di quanto era stato detto prima di lui, delle scoperte fatte nel campo della storia artistica dell’alto medioevo.

Partire dalla tesi del Ceschi era più che necessario, poiché essa è fino ad oggi la più esauriente e quella che può dare affidamento maggiore, avendo egli stesso diretto i lavori di scavo e di restauro della cripta.
Ma alcune soluzioni, dopo un esame ripetuto del monumento, sul filo conduttore di una traccia storica in cui certe vicende andavano legandosi sempre di più, ne hanno suggerito altre.
L’edificio in questione, una chiesa ad un’unica aula, sorge ora nel cuore della città, ma aveva in origine una posizione isolata, al di fuori del circuito urbano.
I bombardamenti dell’ultima guerra, per cui la chiesa subì gravi mutilazioni, portarono in luce i resti di una cripta posta al di sotto e per tutta l’estensione della zona presbiteriale.
Di tale cripta si era supposta l’esistenza da alcune tracce visibili dietro l’altare, ma solo allora se ne ebbe la certezza.
Di qui cominciò lo studio del Ceschi che ne ricostruì la vicenda edilizia, cercando di passare dalle generiche e vaghe affermazioni e supposizioni precedenti a più chiare definizioni.
Il suo esame inizia appunto dai resti di tale cripta: un’abside semicircolare interna pressoché concentrica, rispetto a quella della chiesa superiore che la racchiude, con il muro dello spessore di circa m 1,60 e che presenta tracce d’intonaco all’esterno nel punto in cui vi si addossa la muratura dell’abside posteriore; una serie di colonnine a capitelli di vario tipo divide in  cinque navate lo spazio, ampliandosi verso i muri di fondazione della chiesa superiore.
Tali colonnine sono impostate su piani di posa  di livello differente: le quattro di fondo, nel semicerchio absidale, sono allo stesso livello; le antistanti, verso la chiesa, ad un gradino inferiore; le altre, verso i muri di fiancata, ad una quota più alta di 50 cm.
L’osservazione di questi particolari ha portato il Ceschi a determinare, per la cripta, due epoche di costruzione, o meglio a riconoscere le tracce di una trasformazione, avvenuta in epoca posteriore, della cripta originaria, il cui nucleo primitivo egli ritrova nei resti dell’abside semicircolare e nelle colonne della navatella centrale.
Per questa prima fase costruttiva egli parla di un’epoca molto anteriore alla chiesa romanica, supponendo di trovarsi di fronte alla cripta a tre navatelle di una chiesa ancora precedente.
Circa la datazione dell’edificio romanico, che si sarebbe sovrapposto al nucleo precedente,il Ceschi pensa  alla prima metà del secolo XI, mettendola in relazione alla notizia secondo cui il vescovo Teodolfo avrebbe affidato l’Abbazia di santo Stefano  ai monaci bobbiesi di San Pietro della Porta, negli anni tra il 960 e il 969.
Proprio entro la prima metà del secolo XI, stando al Ceschi, i monaci bobbiesi avrebbero ricostruito il monastero in rovina con la chiesa giunta fino a noi.

Nel secolo XI, perciò, si sarebbe sostituita all’antica chiesa quella romanica ed anche la cripta sottostante a tre navatelle  sarebbe stata ampliata con l’aggiunta delle navatelle laterali che raggiungono i muri di fondazioni della chiesa superiore (posteriore) e le cui colonnine presentano il piano di posa ad un livello superiore di circa 50 cm rispetto a quello delle precedenti.
In sostanza il Ceschi, nella vicenda edilizia della cripta scorge due momenti, di cui il primo antecedente alla chiesa di Teodolfo, il secondo  strettamente legato alle forme ed al risultato ultimo della chiesa (superiore), che egli data all’XI secolo.
Partendo da queste premesse della tesi del Ceschi è necessario cercare di determinare, colla maggior approssimazione possibile , il valore storico di queste due epoche, non essendo sufficiente, soprattutto per i resti più arcaici, una generica datazione avanti il mille (tanto più che alcuni fatti, se esaminati nel loro giusto valore e collegati l’uno all’altro possono assumere un di verso significato e suggerire nuove problematiche).
Il periodo a cui crediamo di attribuirei resti della prima facies della cripta è uno dei più nebulosi ed in parte ancora oscuri della storia di Genova.
Difficile rintracciarne le fila, ancora molto slegate.
La scoperta archeologica è talvolta il punto chiave di tutta una ricerca e, quando è sufficientemente attendibile, può essere una prova certa ad avere il valore di una documentazione scritta (ovvero qualcosa che resta e che può testimoniare).
Occorre però andare avanti cauti per non cadere in errore.
L’abside interna della cripta risulta apparecchiata in blocchi di pietra scura, quadrati anche se in modo piuttosto irregolare, sistemati in filari non completamente e regolarmente allineati, in cui è possibile tuttavia scorgere uns volontà nella ricerca di un certo decoro nella disposizione allineata dei conci.
I giunti che li saldano sono di dura pozzolana ed hanno uno spessore variabile da 2 a 3 cm.
Nell’esame di tale partito murario due particolari piuttosto interessanti sono saltati all’attenzione: le lesene, a pianta rettangolare che si appoggiano all’abside e sostengono il nascimento delle volte, sono di un’apparecchiatura diversa dalla precedente, molto rozza, composta di piccoli blocchi di pietra scura, misti a blocchetti, molto grossolanamente sbozzati, di un materiale tufaceo rosato.
Da u n saggio operato in loco, risulta che tali lesene non sono legate strutturalmente alla muratura dell’abside, ma appoggiate, gettate cioè sulla superficie muraria dell’abside stessa.
Sarebbe interessante controllare anche la consistenza muraria dello szoccolo che sorregge,  ma durante il restauro una colata di cemento armato di consolidamento non ne ha più lasciata libera a vista alcuna parte.
Da rilievi eseguiti, però, in occasione dello sterramento della cripta, è stato possibile constatare che la consistenza muraria dello zoccolo non differisce da quella delle lesene.
Segno quindi che ambedue questi elementi furono murati nello stesso tempo. Ma quando?
La muratura diversamente apparecchiata da quella dell’abside può già indicare una di versa epoca: anche a voler pensare ad un impiego di materiale differente, come spiegare la diversa lavorazione  e l’apparecchiatura certo più rozza dei conci?
A questo punto ci viene in aiuto un altro particolare, sufficientemente notato.
Nel punto centrale della curvatura dell’abside vi è sporgente di 10 cm dallo zoccolo, la traccia chiaramente visibile, di una finestra, a spalle diritte, di un metro di apertura, sormontata da un arco piuttosto mal apparecchiato.
Tale apertura risukta otturata con lo stesso materiale tufaceo di colore rosato che abbiamo notato nella struttura muraria delle lesene.
Certamente l’apertura fu otturata quando venne meno la sua funzione; probabilmente quindi vi fu gettato contro anche lo zoccolo.
Proprio l’osservazione di questi particolari ha introdotto un nuovo problema, facendo sospettare due momenti successivi di costruzione per quello che dal Ceschi è ritenuto invece il nucleo unitario della prima facies della cripta (quella delle tre navatelle che avrebbe preceduto la costruzione del Teodolfo). In tal modo il Ceschi considera unitaria la muratura dell’abside interna e delle lesene e quindi, conseguentemente, delle volte condotte in modo ancora piuttosto incerto. A parte la constatazione delle diversità del materiale usato e soprattutto della diversità della tecnica di impiego di tale materiale per l’abside e le lesene, che fa sospettare due epoche diverse, quale funzione poteva avere in questa cripta quella apertura che fu poi otturata ?.

Si può rispondere in un modo che pare ovvio e logico: funzione di finestra necessaria a dare luce all’interno.

Ma se si accetta questa che pare la ragione più ovvia, ci si deve senz’altro convincere che la zoccolatura che sorregge le lesene e che è venuta a sovrapporsi e ad otturare la supposta finestra non appartiene alla prima stesura della cripta.
Il che equivale anche ad escludere la contemporaneità della copertura a volte, nascenti dalle lesene.
Se poi si osserva ancora che il materiale con cui si è proceduto al riempimento dell’apertura è costituito dallo stesso calcare rosato con cui sono apparecchiate le lesene, non resta che constatare un rimaneggiamento posteriore della cripta di cui l’abside, con l’apertura a spalle dritte, costituirebbe il primo momento.
Bisogna quindi chiedersi quando presumibilmente avvenne quella trasformazione,che le lesene addossate e lo zoccolo che ha otturato quasi totalmente le finestra stanno ad attestare.
Il che porterebbe a stabilire un termine ante quem per la parte più arcaica, che non solo è limitata all’abside.
Esaminando direttamente la muratura delle lesene e, se fosse ancora possibile, quella della zoccolatura, ci si trova in presenza di una apparecchiatura assai rozza di conci disposti disordinatamente e scalpellati in modo estremamente irregolare, benché il materiale adoperato fosse un calcare e quindi facilmente lavorabile;  anzi, qui non si potrebbe nemmeno parlare di muratura, ma piuttosto di un grossolano riempimento.
Proprio questo carattere di rozzezza, sulla scorta delle considerazioni suggeriteci dall’Arslan e dal Verzone, non può portarci lontano da una datazione attorno al X secolo.
Anzi, parrebbe addirittura di poter indicare questo momento come termine post quem, poiché non è possibile in epoca posteriore trovare una simile rozza apparecchiatura muraria.
La stessa pietra usata può testimoniare un periodo di tempo in cui non ci si preoccupava molto della buona qualità del materiale da metter in opera.
Anche le volte di questa che si ritiene essere la seconda fase costruttiva, volte che sono indubbiamente legate alle lesene, pur presentando già una soluzione nuova della loro forma a crociera, che in nessun modo ci può far rimontare oltre il X secolo, sono ancora sprovviste di nervature e si presentano in maniera piuttosto incerta; il legame con il capitello non è infatti assolutamente risolto e l’attacco colla lesena presenta anch’esso una sintassi ancora insicura ed in via di formazione.
Se per tale novità di una copertura a crociere senza nervature, pur tenendo conto delle modeste dimensioni degli spazi da coprire, è difficile risalire oltre il X secolo, altrettanto non è possibile andare molto oltre la seconda metà dell’XI secolo, anche tenendo presente il ritardo con cui certe forme giungono a Genova.
Quindi ci si trova di fronte ad una fase costruttiva che ha tutti gli elementi caratteristici per una datazione che non può molto allontanarsi dal X secolo, come altresì risulta da documenti del cartario di Santo Stefano, dove si riporta della vita di un “monasterio sancti Stephani… qui est constructus prope civitate janua…”.
Stabilito così un termine ante quem per l’epoca della trasformazione, resta da prendere in esame quella che si ritiene la parte più interessante dell’edificio.
Si riprende quindi il discorso della misteriosa finestra che dava luce all’abside della cripta,  finestra oggi sita ad un livello piuttosto basso del terreno.
Durante lo sterramento, infatti, è ciò è testimoniato dai rilievi che ne sono stati eseguiti, si è trovata il livello del piano di posa delle colonnine (le quattro del semicerchio absidale) a metri 1,40 circa al di sotto della parte a vista dell’apertura in questione.
Ancora poco per giustificarne la strana posizione.
Di un altro fatto occorre tenere altresì conto: il piano di posa delle colonnine non era evidentemente su terreno vergine, poiché i lastroni irregolari su cui essi poggiavano apparivano spezzati proprio al centro del punto di appoggio.
Da questa osservazione si potrebbe, con abbastanza sicurezza, dedurre che il terreno su cui tali colonnine erano impostate, doveva essere di  riempimento: non altrimenti si giustificherebbe la rottura dei lastroni di supporto.
Questa asserzione può essere ancora documentata dalla testimonianza fotografica eseguita durante i lavori di sterro.
Chiaro quindi che lo scendere ancora al di sotto di m 1,40 è possibile.
L’apertura è perciò giustificabile nella sua giusta posizione.
Resta ora da vedere a quale costruzione  appartengono i resti dell’abside, della quale l’apertura a spalle dritte testimonia che sia stata disinterrata (cioè fuori terra) su un prospetto. E si spiegherebbero anche meglio i resti di intonaco rimasti nella parte esterna.
A questo punto ci sorge il dubbio se sia ancora possibile parlare di cripta; innanzi tutto per una ragione di tempo (momento storico).
Si può considerare avvenuta la trasformazione verso la metà del X secolo circa, e ciò ha portato di conseguenza a risalire ad un’epoca anteriore per la parte su cui si operò tale rimaneggiamento.
Ora, sulla scorta di quanto dicono il Verzone e l’Arslan, è difficile trovare in Italia un sistema di costruzione a cripta non anulare (e qui non ci sono gli elementi per poterla considerare tale) avanti il X secolo.
Proprio questo motivo induce ad eliminare senz’altro l’ipotesi di trovarsi di fronte ad una cripta, tanto più che altri elementi hanno suggerito una nuova interpretazione.
E cominciamo dall’esame della muratura dell’abside interna di cui si è già detto.
Si tratta di una struttura muraria composta di blocchi non ben squadrati e non allineati in modo perfetto tra giunti di dura pozzolana  dai letti piuttosto spessi, ad apparecchiatura in cui  non è scomparsa, però, una certa ricerca di decoro, un tentativo di mantenere ancora una qualche regolarità nella posizione dei filari.
Non quindi una muratura rozza ed informe; anche se si è lontani dall’allineamentoe dalla regolare squadratura dei conci, che si notano nel  V  e VI secolo, non ci si trova ancora di fronte al disordine ed alla confusione costruttiva delle murature dei secoli IX e X.
Il confronto con altre opere può suggerire una datazione che può essere giustificata anche storicamente.
Ad esempio, alcuni tratti di muratura di alcune chiese (San Simpliciano, San Giovanni in Conca, entrambe di Milano) databili al VII secolo, presentano un’analoga muratura a mattoni tra letti di malta di cm 2,5 / 3 di spessore.
Occorre però tenere anche conto della diversità del materiale usato (vedi San Giovanni Evangelista di Castelseprio), in parte di reimpiego, in parte proveniente da fornaci ormai incapaci di produrre materiale di buona lega.
La messa in opera di tale materiale può peraltro sostanzialmente guidare nel confronto per una probabile datazione della parte più arcaica della “nostra” cripta.
Ed ancora un esempio nella Liguria stessa: la chiesa dell’abbazia di Brugnato, sicura fondazione bobbiese, scoperta recentemente. Anche qui la muratura si presenta, come a Santo Stefano, formata da blocchi di pietra non perfettamente scalpellati e uniti da giunti di malta durissima, variabile nello spesso re da 2 a 4 cm. Non parrebbe quindi impossibile per la “nostra” cripta affacciare l’ipotesi, avallata anche da altri elementi, di trovarsi di fronte ai resti di una costruzione risalente al VII secolo.
A far propendere verso tale ipotesi, ad esempio: il tipo di finestra che, a spalle dritte e con apertura di circa un metro, potrebbe certamente testimoniare un’epoca anteriore al X secolo – la ghiera di coronamento apparecchiata in modo rozzo e l’attacco con la spalla sinistra mal risolto.
Bisogna tuttavia tenere presente che ci si trova di fronte ad un progressivo scadimento della tecnica muraria, in cui si cerca di conservare  un certo ricordo del decoro precedente.
Ma ancora altri elementi vanno considerati, e precisamente alcune tracce di muratura, che durante lo sterro sono emerse (ora sono state nuovamente coperte) presso la parte destra dell’abside.
Purtroppo non sono state fatte fotografie di questo particolare piuttosto interessante, ma dai rilievi molto esatti e da quanto si è visto in loco si può dedurre con abbastanza certezza che si tratta di una muratura analoga a quella dell’abside.
Saremmo perciò di fronte ad una piccola aula (metri 7 x 14) absidata che ormai non è più possibile considerare cripta; ciononostante non ci resta che escludere questa ipotesi, proprio perché non sapremmo giustificare la “priorità” di tale elemento struttivo.
Resta allora da trovare una giustificazione per questa che si crede la prima forma della presunta “cripta” di santo Stefano.
Ed anche qui è necessario procedere per confronti.
L’Arslan suppone che non fossero infrequenti, in epoca altomedievale simili organismi ad una navatella, benché non se ne possano trovare che pochi esempi, (tipo chiesa di Sant’Eusebio di Castelnovate).
Un recente studio di Blondel testimonia, stabilendone la datazione al VII secolo la presenza nel territorio della Svizzera occidentale di organismi ad una navatella  dalla catteristica struttura ad aula rettangolare poco allungata e ad abside in cui le misure della larghezza e della profondità di equivalgono.
Ci si trova è vero in un territorio totalmente differente, sottoposto ad influenze e a situazioni diverse, ma non può tuttavia sfuggire l’analogia struttiva.
Si è giunti al punto in cui è necessario chiarire la funzione che dovette avere a Genova l’edificio, che dai resti che ne sono affiorati si crede possa avere affinità con quelli cui ci si è riferiti per trovare gli elementi di uns probabile datazione.
Si legge nel Bognetti, che parte da una considerazione dello Schneider, che i Longobardi usavano servirsi delle fortezze bizantine per farne i loro centri di raccolta  e che, spesso, le fortificazioni di epoca longobarda venivano a sostituirsi ai castra bizantini.
Questi fatti attestano secondo il Bognetti, la necessità da parte dei Longobardi, sia che si tratti di un presidio bizantino assunto in sede di arimannia, sia che si tratti uno stanziamento nuovo, di tener legata in questo modo al prestigio della corte la massa degli Arimanni.
Necessità quindi di erigere nei punti più importanti dei loro stanziamenti, che spesso erano le vecchie fortezze bizantine, queste piccole chiese, la cui dedicazione esaugurale è inconfondibile.
Anche per i resti che si sono esaminati sotto l’attuale Santo Stefano, gli studiosi ritengono di trovarsi in un’analoga situazione.
Restano da ordinare alcuni fatti, alcune notizie fino ad oggi considerate a sé e non in uno stretto rapporto, che invece si suppone esista e ci possa dare la chiave per risolvere questo problema.
Per la torre campanaria, ad esempio, la tradizione locale è concorde nell’affermare di trovarsi di fronte ad una torre bizantina, posta a difesa della città.
All’ipotesi non contraddicono né la posizione in cui essa sorge: un’altura nell’immediato suburbio della città, nella sua particolare struttura muraria a grossi blocchi di pietra (m 1,20 x 0,60) cementati con malta durissima a letti molto sottili.
La torre è ora di parecchio interrata, ma, come si può constatare dall’interno della chiesa e della torre stessa, era fondata ad un livello che non differiva molto da quello che si presume fosse originario della cripta.
Non solo, ma quando, adibita a torre campanaria le fu addossata la chiesa superiore ( ed è chiaro come la muratura della chiesa si appoggi al campanile) restò incorporata nel presbiterio della chiesa stessa che probabilmente doveva servire di accesso alla torre.
Risulta abbastanza evidente che non si tratta di un accesso creato al tempo della costruzione della chiesa superiore per mettere in comunicazione torre e presbiterio, ma di un’apertura già esistente nel corpo della torre stessa.
Per queste ragioni si pensa di poter accettare la tradizione che vuole vedere qui una torre di difesa, tanto più che anche le strette feritoie a strombo interno che si trovano per tutto il corpo della torre, fanno pensare più a questa ipotesi che non quella di torre campanaria.
Potremmo tuttavia trovarci di fronte ad una di quelle torri bizantine di difesa che non avevano in basso nessun accesso.
Alcuni ritrovamenti sono venuti a confortare questa ipotesi.
Si tratta di resti di fondazione, di un tratto di muro che si presenta formato di blocchi aventi circa le dimensioni di quelli della torre e cementati con la stessa durissima malta.
Non c’è dubbio che possa trattarsi del medesimo presunto sistema di fortificazione di cui faceva parte la torre, ritrovati nella zona del palazzo confinante con la chiesa  e siti ad un livello corrispondente circa a quello della cripta.
A questo punto sarebbe da tenere presente la notizia, che da il Poggi di un certo muro “romano della decadenza” a cui era appoggiata la “chiesa di san Michele”, muro che egli vide durante i lavori di saggio della fondazione sottostante all’attuale chiesa di santo Stefano. Non si ha purtroppo nessuna notizia più esatta di quella che ci dà il Poggi, né si ha il modo di controllare l’attribuzione del muro ad epoca romana della decadenza; resta comunque la testimonianza di un altro tratto di muro che potrebbe avere un legame con il precdenete.
Anche sotto la fondazione della facciata dell’ala destra  della chiesa attuale, addossata all’aula centrale del secolo XIV, si trovano grossi blocchi di pietra, che possono essere collegati con i ritrovamenti cui si è già accennato, ad avvalorare l’ipotesi di un luogo fortificato esistente sulla collina di santo Stefano in epoca bizantina.
Sulla vicina collina di Sant’Andrea, più prossima  alla “città”, vennero in luce nel 1909 resti di una torre quadrangolare a grossi blocchi di pietra.
Non poteva forse anche questa torre  essere in relazione alla presunta fortificazione di Santo Stefano ?
Tra l’altro le notizie storiche attestano l’esistenza di un presidio bizantino a Genova.
De resto, Genova e la cosiddetta Provincia Maritima Italorum i cui limiti stremi sono indicati a Luni e Ventimiglia, erano rimaste nell’Italia settentrionale la roccaforte del governo bizantino ed era molto probabile che immediatamente fuori la cerchia delle mura cittadine vi fosse uno stanziamento fortificato.
Le tracce che si sono trovate sulla collina di Santo Stefano potrebbero esserne testimonianza, e tornerebbe anche a posto la tanto discussa lapide  del suddiacono Sanctulus, che è stata qui ritrovata, ma che si vuole pensare ad ogni costo proveniente dalla necropoli di Sant’Andrea, perché non se ne saprebbe giustificare a santo Stefano l’esistenza.
Si suggerisce quindi un semplice accostamenti di fatti: l’analoga situazione riscontrabile negli avanzi del castello bizantino di Lecco: pure là una lapide che ricorda un presbiter Virgilius e che dà la testimonianza di una vita religiosa all’interno della fortificazione.
Non può esser accaduto questo anche a Genova? E la lapide del suddiacono Sancutulus non potrebbe indicare, assieme ai resti  di fondazione  e alla torre  una simile situazione?
Anche se resterebbe unica testimonianza di una vita religiosa all’interno del presunto castello bizantino, perché di una chiesetta di quel momento non esistono tracce.
Restano perciò questi fatti comuni che non vanno trascurati.
anche qui come a Lecco si poteva essere in presenza di una di quelle piccole chiesette interne alle fortificazioni bizantine, che il Bognetti ritiene frequenti.
Si è cercato di avvalorare storicamente, il più possibile, questa ipotesi perché sembra possa indicare la via giusta per questa indagine.
Per alcune chiese egli ha accertato la trasformazione, avvenuta in epoca longobarda, in seno al presidio ivi esistente divenuto sede di una arimannia longobarda con una propria piccola chiesa ( molto spesso ad una aula come la nostra), la cui dedicazione non lascia dubbi sull’origine.
Anzi afferma sempre il Bognetti, che spesso i longobardi usavano servirsi delle conquistate fortezze bizantine per farne i centri di raccola delle loro milizie.
E probabilmente è proprio questo che successe a Genova, la quale fu per molto tempo una delle roccaforti del “limes della Maritima Italorum” e come tale rimase in mano bizantina fino al 640/643 circa; poi, verso questi anni fu conquistata da Rotari.
E non è improbabile che proprio in questo momento abbia potuto sorgere la piccola chiesetta ad aula rettangolare absidata, che si crede riconoscere nei resti indicati in quella che è l’attuale cripta della chiesa di Santo Stefano.
La necessità di dare al presidio arimannico, che certamente si stanziò a Genova dopo la conquista di Rotari, una chiesa che ne rispettasse le tradizioni religiose in un paese  che era stato tenacemente legato a Bisanzio, e quindi al suo credo religioso, aveva la sua importanza.
La tradizione, che non si sa quando abbia avuto origine, parla di un antichissimo oratorio, incorporato nella chiesa di Santo Stefano e dedicato a San Michele ( che è una delle tipiche dedicazioni esaugurali delle chiese arimanni che.
Non si ha nulla che possa storicamente confermare questa notizia, ma certo la supposta dedicazione di un’antichissima chiesa a san Michele, sull’altura di santo Stefano, può portare un elemento in più alla “nostra” ipotesi.
Alla notizia del Castagna, che ci parla del ritrovamento di “rozzissimi sarcofagi di epoca barbarica” presso la chiesa di Santo Stefano, e da quella del Poggi che parla di sepolture ritrovate durante uno scavo nella parte più accostata ai muri, fatte di embrici e lastre di pietra di epoca longobardica, si può credere con sempre maggiore certezza a quella che si è formulata come ipotesi.
Saremmo quindi di fronte ad uno di quei rari ma non infrequenti esempi, per quanto riguarda l’indagine critica, di organismi ad una navatella absidata, caratteristici di quel periodo che segna l’affermarsi della conquista longobarda, e più precisamente lo stanziarsi delle arimannie  nei punti di maggiore necessità strategica.
In Liguria le testimonianze di fondazioni arimanni che non mancano; anzi c’è una copiosa documentazione che trae i suoi fondamenti dall’agiografia e dalla toponomastica, che attesta l’esistenza di chiese dedicate al culto di San Michele proprio nei punti dove la sede arimannica è accertata da altre presenze.